Il suicidio di Didone e il mito che “spiega” la storia
Disperata per il fato che le ha portato via Enea e ormai accesa di rancore verso di lui, Didone decide di togliersi la vita. Virgilio non descrive il suicidio. E, con le ultime parole dell’infelice regina, inserisce il mito eziologico dell’eterna inimicizia tra Romani e Cartaginesi.
I Troiani stanno ormai allestendo le navi e preparando la partenza. Osservati dall’alto della rocca, appaiono come formiche che saccheggiano il cibo e, «memori dell’inverno, lo ripongono in casa», con previdenza.
Mentre pone i doni sull’altare, Didone vede tristi presagi di morte: le acque sacre si anneriscono e il vino si tramuta in sangue. Da un tempio di marmo, collocato nella reggia ove Didone venerava il primo marito, la donna sente provenire voci di Sicheo. Il gufo prolunga per tutta la notte il suo canto lugubre. Tante e tali sono le visioni funeree. La regina non le condivide con nessuno, neppure con la sorella. In sogno appare addirittura Enea a tormentare la regina, che si vede sola e abbandonata, senza più conforto da parte di alcuno.
Ormai la decisione di morire è presa, ma Didone vuole celare il suo progetto a tutti, anche all’amata sorella Anna. Per tranquillizzarla e rasserenarla le racconta di aver trovato una via per sanare il conflitto e il dolore: nel paese degli Etiopi vive una sacerdotessa che ha il dono di sciogliere gli affanni dei mortali. Le chiede di preparare un rogo e di porvi sopra le spoglie e le armi di Enea lasciate sul letto e lo stesso talamo. Perché Didone riprenda a stare bene è necessario cancellare tutti i ricordi mortali di Enea. Anna crede a queste parole, non comprende le reali intenzioni della sorella.
Eretto il rogo, Didone riveste il luogo di ghirlande e lo abbellisce. Scioglie i capelli e invoca le divinità: Erebo, Caos, la triplice Ecate e «se c’è una qualche potenza, giusta e benevola» che abbia «a cuore gli amanti con sorte ingiusta». Giunge la notte, quando tutti, stanchi dalle fatiche diurne, trovano un agevole sonno, mentre la regina sente gli affanni raddoppiare nel petto e si chiede cosa possa fare: affrontare i vecchi pretendenti oppure inseguire le flotte dei Troiani in partenza, ordinando al suo popolo di abbandonare di nuovo la patria, come un tempo? La donna non ha alternative, ne è ormai certa dicendo a se stessa: «Muori piuttosto come hai meritato, cancella con la spada il dolore/ […] non fu salvata la fede promessa alla cenere di Sicheo».
Intanto, Enea si addormenta e in sogno gli appare di nuovo Mercurio che lo sprona a partire, ora che il vento è favorevole e prima che la regina possa macchinare trame contro di lui e i suoi compagni. Svegliatosi di soprassalto, Enea sprona i Troiani alla partenza, obbedendo al comando del dio, sguaina la spada e taglia gli ormeggi. La flotta prende così il largo. È ancora notte.
Sopraggiunge l’aurora. Didone vede le navi procedere a vele spiegate. Prima di darsi la morte, la regina scioglie un ultimo monologo. Si rimprovera di non aver ucciso Enea, «quello che dicono portare con sé i sacri penati,/ che dicono aver sostenuto sulle spalle il padre logorato dall’età». Si dispiace di non aver ammazzato il figlio di lui, Ascanio, e i Troiani tutti. Prega gli dei che Enea non possa godere «del regno o della luce desiderata, ma cada/ prima del tempo ed insepolto in mezzo alla sabbia». Maledice il popolo troiano, auspicando che ci siano in eterno guerra e odio tra i Cartaginesi e la discendenza di Enea:
[…] Per i popoli non ci siano alcun amore e patti.
Sorgi tu, un vendicatore, dalle nostre ossa
sì, insegui i coloni dardanii col ferro e col fuoco,
ora, dopo, in qualunque tempo si daranno le forze.
Prego lidi opposti a lidi, onde a flutti,
armi ad armi: combattano sia loro, sia i nipoti.
Virgilio inserisce così il mito eziologico dell’eterna inimicizia tra Romani e Cartaginesi, sfociata nelle tre guerre puniche che hanno portato alla distruzione di Cartagine nel 146 a. C. e risalente addirittura all’amore infelice tra Enea e Didone. Già nel Bellum poenicum di Nevio, incentrato sulla vicenda storica della prima guerra punica (lo scontro epocale che sancisce il passaggio del dominio sui mari dai Cartaginesi ai Romani) e nel contempo sulla vicenda leggendaria della fuga di Enea dalla città di Troia, si fa risalire la lotta tra i due popoli alla vicenda di Enea e Didone.
Prima di compiere l’estremo gesto, Didone chiede a Barce, nutrice di Sicheo, di far chiamare la sorella Anna, perché porti gli animali per i sacrifici e vengano conclusi i riti avviati. Neppure lei, Barce, intuisce i propositi di Didone, ben dissimulati. Rimasta sola, Didone si reca nella camera nuziale, guarda le vesti di Enea e, gettatasi sul letto, pronuncia le ultime parole:
Dolci spoglie, fin che i fati ed il dio permetteva,
accogliete quest’anima e scioglietemi da questi affanni.
Vissi ed il corso che la sorte mi diede, l’ho compiuto,
ed ora la grande immagine di me andrà sotto le terre.
Fondai una città famosa, vidi le mie mura,
vendicato il marito, ricevetti soddisfazione dal fratello nemico,
felice, ahi, troppo felice, se soltanto le carene
dardanie non avessero mai toccato i nostri lidi.
La donna parla con dolcezza alle vesti dell’uomo amato finché il fato non l’ha portato lontano. Parla anche con dignità e compostezza, con toni da regina, ricordando tutte le grandi azioni compiute per il suo popolo (la fondazione della città, la costruzione delle mura). Parla da moglie di Sicheo, da lei vendicato. Parla da donna che crede negli dei, in divinità che non hanno pietà delle sofferenze umane, ma, al contrario, provano invidia: tanta era la felicità di Didone che gli dei ne hanno provocato la sventura (secondo la credenza degli antichi). La pazzia (furor) di cui è vittima Didone è tale che lei, regina, non si accorge di abbandonare il suo popolo quando ancora la sua opera non è compiuta.
Didone preme la bocca sul letto e poi conclude: «Moriremo invendicate,/ma moriamo». Le ultime parole sono per Enea, che possa vedere dall’alto mare il fuoco della pira dove sarà posto il suo corpo «e porti con sé i presagi» della morte della regina. Virgilio non ci descrive il suicidio, ma la scena che appare dinanzi agli occhi delle ancelle dopo che lei ha pronunciato le ultime parole. Sentiamo i versi latini:
Dixerat, atque illam media inter talia ferro
conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore
spumanten sparsasque manus.
Le ancelle (comites) vedono Didone (illam) che ha già compiuto il gesto estremo (conlapsam ovvero «lasciatasi cadere» è un participio passato che indica che l’azione è già avvenuta), la spada è spumeggiante (spumantem) di sangue (cruore) così come le sue mani. Il linguaggio è alto e tragico, come si addice ad una tragedia. I modelli di Virgilio vanno ricercati nelle tragedie di Sofocle e di Euripide.
La notizia della morte della regina si sparge per la città; la Fama la diffonde. Anna si dispera per la morte della sorella: si sente abbandonata e ingannata, sconsolata perché Didone non ha voluto trovare conforto in lei. La rimprovera:
Uccidesti, sorella, te e me ed il popolo e gli antenati
sidonii e la tua città. […]
Didone finisce nell’Ade, tra i morti prima del tempo (nella zona dei suicidi per amore). Enea la incontrerà di nuovo (e per l’ultima volta) quando si recherà negli Inferi (libro VI).