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IRAN

Il sogno atomico, dietro il sorriso delle trattative

Da quando Barack Obama ha vinto il suo secondo mandato presidenziale, gli attriti internazionali paiono magicamente avviati a una loro pacifica soluzione. Ma è davvero così o la situazione in realtà è fuori controllo?

Esteri 03_03_2013
Iran

Da quando Barack Obama ha vinto il suo secondo mandato presidenziale, gli attriti internazionali paiono magicamente avviati a una loro pacifica soluzione. Persino l’Iran pare essere finalmente rinsavito, da quando John Kerry, nuovo segretario di Stato, nel suo incontro con il suo omologo tedesco Guido Westerwelle, a Berlino, ha dichiarato che esiste “una via diplomatica” per risolvere la questione nucleare di Teheran.

Il nuovo titolare della politica estera americana ha espresso la “speranza” che “L’Iran stesso compia una scelta per inserirsi nel percorso di una soluzione diplomatica”. L’esito dei colloqui ad Almaty (Kazakhstan) fra la Repubblica Islamica e il gruppo di contatto dei 5+1 (Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina e Germania) pare confermare il suo ottimismo. Alla proposta di alleggerire le sanzioni economiche in alcuni settori (il commercio di oro e metalli preziosi), le sei potenze chiedono un maggior accesso degli ispettori dell’Onu ai siti nucleari iraniani e la sospensione dell’arricchimento dell’uranio (dunque: della produzione di materiale utile anche per la costruzione di testate nucleari) in almeno un sito, quello di Fordo, sotterraneo e fortificato.

Il capo negoziatore di Teheran, Saad Jalili, ha risposto con toni, se non positivi, almeno possibilisti. Ha dichiarato che le proposte delle grandi potenze sono “positive” e “realistiche”, andando oltre la politica del muro-contro-muro sin qui seguita dal suo governo.
Il suo ministro degli Esteri, Alì Akbar Salehi, ha ribadito che “Il processo (diplomatico, ndr) sta arrivando a una svolta e penso che i colloqui di Almaty saranno ricordati come una pietra miliare”.

Ad Almaty, è giusto ricordarlo, non è stato raggiunto alcun accordo, ma è stato solamente preso un impegno comune a fissare un nuovo incontro, fra alti funzionari, previsto per il 17-18 marzo a Istanbul. Un ulteriore round di colloqui, che questa volta coinvolgerà anche l’Unione Europea (rappresentata da Catherine Ashton), si terrà ancora ad Almaty, il prossimo 5-6 aprile.

Va tutto per il verso giusto? Non bisogna dimenticare il monito lanciato da Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu. Ban, che non ha una fama di “falco”, riferendosi a questi continui negoziati, ha esortato a mantenere un atteggiamento più fermo: “Non dovremmo dare agli iraniani molto più tempo e noi non dovremmo sprecarlo. Abbiamo visto quel che è successo in Corea del Nord. Che, silenziosamente, segretamente, senza alcun obbligo né pressione, stava facendo progressi” sul suo programma nucleare. E a febbraio ha condotto (non il primo, bensì) il suo terzo test sotterraneo di un’arma atomica.

Anche la Corea del Nord ha sviluppato tutta la sua attuale capacità militare dietro la cortina fumogena di continue trattative, ormai naufragate da anni, con un gruppo di contatto formato da grandi potenze (questa volta chiamato Colloqui a Sei). L’Iran, in quest’ultimo round di colloqui, può anche apparire più accondiscendente perché ha estrema necessità di un alleggerimento delle sanzioni. La sua economia è in recessione, gravemente colpita dalle misure restrittive sul petrolio (sua risorsa primaria) e sulle transizioni finanziarie. Ma c’è un’altra ipotesi, più pessimistica, sul cambio di rotta di Teheran. L’Iran potrebbe già essere arrivato al suo obiettivo. Potrebbe già avere completato la sua prima testata nucleare.

La brutta notizia, se confermata, arriverebbe proprio da quella Corea del Nord citata da Ban Ki-moon. Secondo un think tank statunitense, l’American Foreign Policy Council, una delegazione tecnica della Repubblica Islamica, era presente nel “regno eremita” al momento del test atomico. Non è un mistero che i due “Stati canaglia” abbiano cooperato nei loro programmi nucleare e missilistico: il disegno dei vettori, tanto per fare un esempio, è lo stesso. Una delle banche nordcoreane colpite dall’ultimo round di sanzioni, era accusata proprio di finanziare i progetti atomici di Teheran, oltre che di esser parte di quelli nordcoreani.

La Rand Corporation, uno dei più celebri istituti di analisi militare degli Stati Uniti, ipotizza anche che la bomba fatta esplodere da Pyongyang nel suo ultimo test, fosse costituita da uranio arricchito (materiale prodotto in Iran) e non da plutonio, cioè dal materiale fissile a disposizione dei nordcoreani, usato nei precedenti esperimenti. Insomma, meno di un mese fa avremmo assistito a un test di una bomba atomica che entrerà in servizio sia in Iran che in Corea del Nord?

Non lo sappiamo con certezza. Ma questo spiegherebbe meglio, dopo anni di chiusura, il perché dell’apertura iraniana. Fosse vero, sarebbe la più grave sconfitta della politica estera statunitense negli ultimi decenni L’amministrazione Obama, tuttavia, difficilmente riconoscerebbe la sconfitta. Perché è convinta che, anche se possedesse l’arma atomica, l’Iran sarebbe ancora “addomesticabile”, riconducibile al normale comportamento diplomatico.

Vantando la sua laicità, l’amministrazione democratica statunitense esclude che il comportamento di un regime sia condizionato dalla sua ideologia o religione. Ignora quella strana e recentissima dichiarazione dell’ayatollah Alì Khamenei, Guida Suprema di Teheran: “Se l’Iran dovesse dotarsi di armi nucleari, nessuna potenza straniera potrebbe fermarlo”. Lo ha detto all’indomani del test nordcoreano. Khamenei ha sempre condannato come anti-islamico il possesso di armi di distruzione di massa. Ma non ha mai escluso il loro uso per “necessità”. Una necessità che si traduce con: capacità difensiva. Senza dubbio. Ma anche con la possibilità di realizzare la profezia in cui crede: la prossima manifestazione del XII Imam riporterà ordine sulla Terra, sotto la legge del Corano. Ma sarà preceduta da un periodo di caos e conflitto.