Il silenzio non passa di moda nell'era del "rumore 2.0"
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Dal frastuono del traffico alle mille notifiche sembra impossibile sottrarsi alla colonna sonora, anzi rumorosa del nostro tempo. Per questo la dimensione contemplativa è ancor più necessaria.
Un pericolo incombe sull’abbazia milanese di Chiaravalle. Non è una minaccia fisica, né una calamità naturale, bensì l’ipotesi di costruire il nuovo stadio del Milan a soli 850 metri: «Percepiamo il progetto come una minaccia», dichiara l’abate Stefano Zanolini: «Chiaravalle non potrà più essere considerato un luogo dello spirito soprattutto per l’inquinamento acustico prodotto dagli eventi nello stadio». Non ci addentriamo nella questione, che non è politica né tantomeno calcistica, benché l’abito bianco-nero dei monaci di san Bernardo possa prestarsi a tale lettura. Tuttavia la querelle ci porta a una riflessione più ampia, poiché ad allarmare i religiosi è il rischio di vedere (anzi: sentire) intaccare un tesoro essenziale per chiunque – ma in particolare per i monaci – benché sempre più ignoto ai nostri giorni: il silenzio. Talmente necessario che senza di esso non basterebbe nemmeno andare nel deserto, come ricordava in un altro editoriale Roberto Marchesini.
Se ci fosse una mappa del rumore, le “riserve acustiche” si limiterebbero a monasteri, abbazie e pochi altri luoghi, sempre più rarefatti e circondati tutt’intorno da un crescendo, a volte piacevole, altre molto meno. Se ci fosse anche un diagramma del rumore nella storia, questo evidenzierebbe – dopo un andamento tutto sommato lineare – un picco negli ultimi due secoli e poi un picco ulteriore negli ultimi vent’anni. Effetti avversi del pur necessario progresso, che ce ne portano la colonna sonora sin dentro casa. Da tv e radio accese ovunque, negli spazi pubblici e in quelli privati, agli ingorghi diurni di troppe auto in poca strada, ai ronzii notturni di qualche elettrodomestico: che siano rumori superflui o necessari, costituiscono a tal punto il sottofondo delle nostre vite da non poter immaginare un’alternativa. Ma rispetto al rumore meccanico della civiltà industriale – della «materia / che mai non dorme», che nell’Inno a Satana Carducci brandiva con fervore laicista contro «l’aspersorio» – quello odierno ha fatto un salto di qualità.
Viviamo nell’era del “rumore 2.0”, dove il crescendo assume un ritmo frastagliato e compulsivo, dove i “grandi” rumori della strada o del cantiere sembrano quasi antichi e naturali rispetto al susseguirsi di bip e clic, di pagine che aprono altre infinite pagine, moltiplicando gli impulsi che, simili alla goccia che scava la pietra, battono sull’orecchio, sull’occhio, sulla mente perennemente distolta dal tentativo di concentrarsi su una e una sola cosa. Notifiche esterne e di riflesso anche interne, tali da portare periodicamente a chiedersi quali siano gli effetti sulla nostra attenzione e concentrazione, in una continua metastasi di distrazioni che a lungo andare ci danno l’impressione di affannarci senza far nulla. Eppure, possiamo fare a meno di alcune, ma non certo di tutte le note dissonanti che caratterizzano il nostro paesaggio visivo e sonoro, vuoi perché necessarie per la vita o per il lavoro, vuoi perché dipendono da altri, vuoi perché il silenzio conosce lo stesso paradosso di chi talora riacquista la libertà ma non sa più cosa farne e ne resta interdetto. Allora torniamo a buttarci a capofitto nel rumore, non sapendo che, in realtà, a spaventarci non è il silenzio in sé, bensì il silenzio vuoto, che non siamo capaci di riempire senza ricorrere a surrogati mediatici e informatici. Il che rende ancora più essenziale ritagliarsi dello spazio-tempo immune da questa “roulette acustica”.
A salvarci dal rumore compulsivo è lo sguardo contemplativo. Più cose vediamo e sentiamo, più si rivela rigenerante riuscire a gustarne una sola (né più né meno di quando ci lasciamo assorbire a tal punto da un film che dimentichiamo tutto ciò che ci sta intorno, notifiche incluse), sia essa frutto dell’arte o un frammento della creazione: il dettaglio di un dipinto, un verso o un raggio di sole... o il cervo che sorprese don Vincent Nagle: «Cercando di immedesimarmi con il grande silenzio in cui ero immerso, stavo nel fiume, al tramonto, e guardavo attorno “assorbendo” attraverso i miei sensi l’ambiente che mi circondava (...) quando, improvvisamente, notai un paio di grandi occhi che mi stavano fissando dal canneto. Si trattava di un cervo che, immobile, stava fermo lì nella speranza di non essere notato da me. (...) L’adorazione è qualcosa di simile. Spesso ho fatto l’esperienza di percepire il Suo sguardo [di Cristo] mentre trascorrevo del tempo, in silenzio, davanti a Lui» (Davanti al Re. Sotto lo sguardo di Cristo, Ares, Milano 2023).
Nell’era del rumore 2.0 il silenzio esteriore e interiore non è passato di moda, al contrario, è il solo modo per oltrepassare la ragnatela dei mille impulsi che ci impediscono di guardare e sapersi guardati, sentire e sapersi sentiti, laddove il frastuono tace e giungono solo gli echi dell’eternità.
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