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100 ANNI DI CALVINO/4

Il romanzo che un’intera generazione avrebbe voluto scrivere

Così scrisse Calvino su Il sentiero dei nidi di ragno: «Se un valore oggi riconosco a questo libro è lì: l’immagine di una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l’indigenza del “troppo giovane” e l’indigenza degli esclusi e dei reietti»

Cultura 08_05_2023

Il 26 ottobre 1947 su L’Unità compare una recensione sul romanzo I sentieri dei nidi di ragno (1947), pubblicato poche settimane prima.  Porta la firma di Cesare Pavese che apre l’articolo con queste parole:
«A ventitré anni ltalo Calvino sa già che per raccontare non è necessario «creare i personaggi», bensì trasformare dei fatti in parole. Lo sa in un modo quasi allegro, scanzonato, monellesco». 

Poi, ancora, Pavese riconosce la specificità della scrittura di Calvino e di un romanzo che è il primo ad essere stato scritto sulla vita partigiana:
«L’astuzia di Calvino, scoiattolo della penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che per paura, e osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, "diversa"».

Un ragazzo di nome Pin vive negli ambienti disagiati di una città di mare, emarginato da tutti per il fatto che la sorella è una prostituta. Frequentando un’osteria, viene a conoscenza di un mondo adulto spesso fondato sulla violenza, sul sesso, sul tradimento.  Desidererebbe tanto che gli altri ragazzi lo ammirassero e lo considerassero come loro capo, «perché lui sa tante cose più di loro». In realtà è però allontanato da loro e può solo stare con il mondo degli adulti, in mezzo a miserie tra i quartieri del porto e la montagna, in una condizione di solitudine:
«Pin si trova solo a girare nei vicoli, con tutti che gli gridano improperi e lo cacciano via. Si avrebbe voglia d’andare con una banda di compagni, allora, compagni cui spiegare il posto dove fanno il nido i ragni, o con cui fare battaglie con le canne, nel fossato. Ma i ragazzi non vogliono bene a Pin: è l’amico dei grandi, Pin, sa dire ai grandi cose che li fanno ridere e arrabbiare, non come loro che non capiscono nulla quando i grandi parlano. Pin alle volte vorrebbe mettersi coi ragazzi della sua età, chiedere che lo lascino giocare a testa e pila, e che gli spieghino la via per un sotterraneo che arriva fino in piazza Mercato. Ma i ragazzi lo lasciano a parte, e a un certo punto si mettono a picchiarlo; perché Pin ha due braccine smilze smilze ed è il più debole di tutti. […] E a Pin non resta che rifugiarsi nel mondo dei grandi, dei grandi che pure gli voltano la schiena, dei grandi che pure sono incomprensibili e distanti per lui come per gli altri ragazzi, ma che sono più facili da prendere in giro, con quella voglia delle donne e quella paura dei carabinieri, finché non si stancano e cominciano a scapaccionarlo».

In questo contesto Pin vive nel suo mondo fiabesco in cui si concretizza la scoperta del sentiero che conduce al luogo in cui i ragni fanno il nido: «Questi sono posti magici, dove ogni volta si compie un incantesimo. E anche la pistola è magica, è come una bacchetta fatata». Proprio in quei luoghi Pin nasconde la pistola che ha sottratto al tedesco Frick su istigazione di un adulto incontrato all’osteria.

Pin viene catturato e conosce in prigione un partigiano comunista con cui scappa. Si aggrega poi ad un gruppo partigiano dove conosce una realtà umana non certa eroica, per nulla idealizzata. Al gruppo fanno parte tra gli altri Dritto il comandante, Pelle, Mancino, Giglia (moglie di Mancino). Un giorno la casa in cui alloggiano prende fuoco. Il commissario Kim e il comandante Ferreira che conducono l’inchiesta incontrano la banda e danno istruzioni per la battaglia. Sentendosi ormai alla fine per la malattia e bramoso di avere un rapporto con Giglia, Dritto non parte. Invano Pin cerca di recuperare la pistola nascosta, perché un partigiano traditore l’ha portata via. Pin la ritroverà a casa della sorella connivente con i tedeschi.

Pin si sente solo, deluso da un mondo di adulti incline alla violenza e al sesso. Solo alla fine ritrova un adulto (Cugino) di cui possa fidarsi e che lo possa proteggere.

Lo sguardo che segue le vicende della lotta partigiana e dal cui punto di vista è raccontata la storia è quello di un bambino, che, pur se frequenta gli adulti, conserva ancora la dimensione fiabesca negli occhi.

Annota Calvino nella prefazione del 1964:
«
Fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me n’ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione. La mia storia cominciava a esser segnata, e ora mi pare tutta contenuta in quell’inizio».

Sempre nel 1964 con grande onestà Calvino riconosce: «Se un valore oggi riconosco a questo libro è lì: l’immagine di una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l’indigenza del “troppo giovane” e l’indigenza degli esclusi e dei reietti».

Su Il sentiero dei nidi di ragno Calvino conclude:
«
Questo romanzo è il primo libro che ho scritto, quasi la prima cosa che ho scritto. Cosa ne posso dire, oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto». Calvino riconosce che chi scrisse il romanzo che un’intera generazione aveva sempre sognato sulla Resistenza fu un altro, Beppe Fenoglio:
«Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata».

In Una questione privata compare finalmente la Resistenza:
«
proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. […] Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché (Calvino)».

In Fenoglio la scrittura è quell’atto creativo che genera alla vita ciò che prima non esisteva, ma che a sua volta scaturisce da qualcosa che è già accaduto. Non bastano, però, i fatti per comporre epica. «L’epica per essere possibile ha bisogno di esperienze estreme, non ordinarie, in cui l’umano sia messo alla prova del fuoco»  così scrive Gianfranco Lauretano nel saggio Beppe Fenoglio. La prima scelta (2022, edizioni Ares). L’epica nasce da un avvenimento. Un fatto diviene un avvenimento quando rimane nel tempo, «cambia e a volte stravolge la vita, la indirizza profondamente. Un avvenimento continua ad accadere nel presente in modo durevole, a volte per sempre» (Lauretano).

L’avvenimento centrale che ha cambiato la vita di Fenoglio è la Resistenza, tanto che sulla sua tomba compare l’epitaffio «Partigiano e scrittore». Attorno a quell’avvenimento ruota tutto il resto, anche la vocazione dello scrittore. La prima scelta (come recita il sottotitolo del saggio di Lauretano), quando Fenoglio intraprende il mestiere dello scrittore, è la guerra civile (ovvero la lotta partigiana).

I romanzi di Fenoglio in cui compare la Resistenza non si traducono mai in politica, in ideologia, in edulcorato compiacimento ed esaltazione di una parte degli uomini a discapito degli altri. Lo scrittore ha fatto la sua scelta, ha deciso da che parte stare, così come i partigiani. Nonostante questo, l’esperienza gli ha mostrato come anche gli avversari siano uomini e gli stessi partigiani siano anch’essi uomini con tutti i loro limiti e difetti. Comunisti e intellettuali impegnati (engagé) rimprovereranno a Fenoglio questa descrizione non idealizzata dei partigiani.

Anche ne Il sentiero dei nidi di ragno Calvino evita la rappresentazione idealizzata dei partigiani e della Resistenza proprio perché si avvale dello sguardo di un bambino per raccontare. Solo nel capitolo IX assistiamo al racconto della lotta partigiana nel dialogo tra il commissario Kim (studente che «ha un desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle cause e gli effetti») e il comandante Ferreira («operaio nato in montagna, sempre freddo e limpido»). Kim riconosce che nei partigiani e nella «brigata nera» ci sono lo stesso spirito e lo stesso furore, che sono «la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato». Ribadisce Kim:
«C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro […]. Tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli».

Kim arriva addirittura all’illusione utopistica di poter costruire un’umanità nuova che non sia più capace di cattiveria: «Un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi».