Il ritorno di Ebola. Ma non è ancora "emergenza"
Torna Ebola, la mortale malattia africana che ha mietuto 11mila vittime nel 2014. Torna in Congo ed il contagio ha raggiunto la città di Mbandaka. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ora ha un vaccino. Aspetta a proclamare l'emergenza internazionale. Sperando di non commettere lo stesso errore di sottovalutazione del 2014.
Il tentativo di circoscrivere l’epidemia di Ebola scoppiata l’8 maggio nelle campagne del nord ovest della Repubblica Democratica del Congo, RDC, e soprattutto di impedirle di raggiungere un grosso centro urbano è fallito. Il 17 maggio l’Organizzazione mondiale della sanità ha annunciato che è stato individuato un primo caso di Ebola a Mbandaka, una città di un milione di abitanti a 130 chilometri dall’area in cui l’epidemia si è originata, importante centro del commercio sul fiume Congo che attraversa il paese e collega alcune delle città più popolose, inclusa la capitale Kinshasa dove vivono dieci milioni di persone.
Commentando la situazione Peter Salama, alto funzionario dell’Oms, ha detto che l’arrivo di Ebola in una grande città è uno sviluppo importante: “Ebola in un centro urbano è cosa molto diversa che Ebola in contesto rurale. In una grande città ci sono le condizioni per un aumento esplosivo dei casi”. Il rischio di diffusione dell’epidemia nel paese adesso è quindi passato da “elevato” a “molto elevato” ed è cresciuta la possibilità che il contagio si estenda ai paesi confinanti con il Congo. L’allarme è particolarmente alto nella Repubblica del Congo e nella Repubblica Centrafricana dove oltre tutto la guerra renderebbe molto difficile intervenire. Ma anche alcuni stati, benchè più distanti, sono in stato di pre-allarme. La Nigeria, ad esempio, già il 9 maggio ha attivato severe procedure di controllo a ogni posto di frontiera per intercettare qualsiasi caso sospetto e in particolare ha disposto che negli aeroporti venga misurata la febbre a tutti i passeggeri di voli internazionali.
L’Oms ha già stanziato 1 milione di dollari attingendo a un fondo di emergenza e ha inviato più di 50 esperti. Anche Medici Senza Frontiere è già sul posto. Sul governo della RDC non si può fare affidamento. Il presidente Joseph Kabila e il suo governo pensano solo a come rimandare le elezioni alle quali Kabila non può più partecipare essendo scaduto nel 2016 il suo secondo e ultimo mandato. Immensi territori sono privi quasi del tutto di infrastrutture, infestati da bande armate. Il servizio sanitario nazionale è carente a dir poco: ad esempio, dispone di un medico ogni 100.000 abitanti.
Che l’epidemia venga arginata o invece dilaghi dipende dall’intervento internazionale, dai fondi disponibili e dal modo in cui la popolazione reagirà e collaborerà. Tra gli ostacoli incontrati in occasione dell’epidemia scoppiata nel 2014-2016 in Sierra Leone, Liberia e Guinea Conakry, la più grave mai verificatasi, un ruolo importante hanno giocato la diffidenza generale, la convinzione radicata che le malattie sono maledizioni che si combattono con la stregoneria, la sfiducia nelle istituzioni.
Per la prima volta però la cooperazione internazionale dispone di uno strumento che potrebbe essere decisivo. Esiste infatti finalmente un vaccino. Il 16 maggio un primo lotto di oltre 4.000 dosi è arrivato a Kinshasa, destinato a Mbandaka, e se ne attende presto un’altra partita. Le scorte al momento disponibili bastano per 50 gruppi, ciascuno dei quali composto da 150 persone a rischio. Ma la somministrazione dei vaccini presenta difficoltà non da poco. Perché funzioni occorre individuare e immunizzare tutte le persone entrate in contatto con degli ammalati di Ebola o supposti tali. “Dobbiamo condurre un’operazione altamente sofisticata in una delle regioni più difficili del pianeta – ha spiegato Peter Salama – dobbiamo fare i conti con il caldo, l’umidità e centinaia di chilometri di aree coperte da fitte foreste, da percorrere quasi interamente su piste perché mancano le strade”. Scarseggiano anche ambulatori, presidi e personale sanitario. Inoltre a Mbandaka la luce elettrica funziona tre o quattro ore al giorno e bisogna ricorre ai generatori. Già questo è un problema perché i vaccini devono essere conservati a temperature molto basse, sotto lo zero.
Ma soprattutto il vaccino è sperimentale. La sua somministrazione deve pertanto seguire un protocollo approvato dalle autorità sanitarie ed etiche, nazionali e internazionali. Bisogna prima di tutto spiegare a ogni soggetto da immunizzare che il vaccino è appunto sperimentale e occorre il suo consenso firmato. Questa apparentemente semplice condizione incontra ostacoli logistici, culturali e linguistici. Per superarli ogni operatore sanitario avrà bisogno di traduttori nei vari dialetti locali e dovrà spiegare in che cosa consiste e come funziona il vaccino ai capi di ogni comunità.
Peter Salama ha dichiarato che l’Oms è preparata al “peggiore degli scenari”. L’agenzia dell’Onu non vuole ripetere l’errore commesso nel 2014 quando ha tardato mesi a riconoscere la gravità dell’epidemia scoppiata in Africa Occidentale e a dichiarare lo stato di emergenza sanitaria internazionale che avrebbe consentito di intraprendere iniziative più consistenti. Il costi del ritardo nel capire l’entità della crisi e agire di conseguenza sono stati enormi in perdite umane – sono morte più di 11.000 persone – e in danni sociali ed economici. Per questo il 18 maggio l’Oms ha incaricato un gruppo di esperti di valutare il livello di allarme. Gli esperti hanno ritenuto prematuro parlare di emergenza internazionale: per il momento – hanno detto – “c’è motivo di ritenere che l’epidemia può essere messa sotto controllo”. Si può solo sperare che questa volta abbiano ragione.