Il ritorno della Prima Repubblica
Il ritorno alla Prima Repubblica verrà formalizzato con le prossime elezioni politiche che, rebus sic stantibus, a giugno, in autunno o a scadenza naturale, ci consegneranno un Paese ancora più frammentato e ingovernabile di quello attuale, con una classe dirigente autoreferenziale.
Le elezioni del febbraio 2013 non decretarono un vincitore, ma tre sconfitti. Dunque, nell’attuale legislatura, le forze politiche sono state obbligate ad accordi trasversali e inciuci. Dopo la palude lettiana, con un governo indeciso a tutto e avvezzo al rinvio su ogni cosa, arrivò Matteo Renzi, il rottamatore. A quel punto ci si illuse che il sindaco di Firenze, col suo piglio decisionista, potesse avviare la transizione verso un’auspicata Terza Repubblica, propiziata da riforme istituzionali consistenti, da un effettivo rinnovamento dei modi di fare politica e da un robusto ricambio della classe dirigente.
Oggi le lancette dell’orologio sembrano tornate alla Prima Repubblica. Anzitutto perché, dopo che negli anni Novanta si era celebrato l’avvento del maggioritario come la panacea del male dell’ingovernabilità, oggi abbiamo la certezza di dover votare, fra un anno al massimo, con un sistema proporzionale, simile a quello dell’epoca dei governi di pentapartito. Essendo remota l’ipotesi del raggiungimento della soglia del 40% da parte di un solo partito, il premio di maggioranza è destinato a non scattare e tutte le forze politiche si vedranno assegnare un numero di seggi proporzionale al numero dei voti raccolti nelle urne, il che imporrà la formazione di governi di solidarietà nazionale o di larghe intese o istituzionali. L’esatto contrario di quanto Renzi è andato predicando per anni: "Il nostro obiettivo è un sistema in cui chi vince governa e chi perde sta all’opposizione, in cui si ha un governo certo già il giorno dopo le elezioni". Un traguardo che appare, oggi, una chimera, vista la frammentazione del quadro e i rinascenti bizantinismi, anche all’interno dei maggiori partiti.
Le due coalizioni di centrodestra e centrosinistra, infatti, sembrano sbriciolarsi, anche a causa del proporzionale, che consente a ciascun attore politico di alzare il prezzo e dettare le condizioni. Perfino i centristi, mettendosi insieme, hanno la certezza di superare la soglia di sbarramento del 3% e quindi non sono costretti a intrupparsi in un listone renziano o in un centrodestra a trazione leghista-lepenista. Preferiranno, con ogni probabilità, essere determinanti dopo il voto.
Ma c’è un’altra rappresentazione plastica dell’indecente involuzione della politica italiana e riguarda l’identità dei contendenti. Sul proscenio, oltre all’ex premier Renzi, che aveva preannunciato l’abbandono della vita politica in caso di sconfitta al referendum del 4 dicembre, e che invece si tiene stretta la segreteria Pd senza convocare il congresso e continua ostinatamente a tramare addirittura per far cadere il governo Gentiloni e accelerare il ricorso alle urne già a giugno, ci sono personaggi che speravamo di esserci lasciati alle spalle una volta per tutte. Il primo è Massimo D’Alema, che, durante la campagna referendaria, aveva assicurato di appoggiare i “no” solo per amor patrio e senza secondi fini. "Un secondo dopo la vittoria dei no al referendum tornerò a occuparmi di politica estera, non cerco rivincite in Italia", erano state le sue parole. Invece oggi guida addirittura le truppe degli scissionisti e intende staccare dal Pd quelle voci più di sinistra che Renzi intenderebbe cancellare. Dunque, non è affatto da escludere che D’Alema, alla guida di un suo partito, peraltro accreditato di un 8% nei recenti sondaggi, possa tornare ad occupare, nella prossima legislatura, uno scranno parlamentare e perfino un ruolo di governo. In queste ore si agita pure Romano Prodi, anche se più defilato. In caso di caos e di deterioramento dei rapporti tra Italia e Unione europea, anche lui potrebbe cercare di riproporsi, nonostante le smentite ufficiali. E che dire di Giorgio Napolitano che, qualche giorno fa, proprio per smarcarsi da Renzi (il prendere le distanze dall’ex premier sembra diventato il nuovo gioco di società tra i rappresentanti delle istituzioni, a riprova dell’invincibile camaleontismo della politica italiana), ha espresso la propria contrarietà a un voto anticipato, auspicando la conclusione naturale della legislatura.
Anche sul versante del centrodestra il futuro somiglia sempre più a un ritorno al passato. A cominciare da Berlusconi, che, nonostante i nuovi guai giudiziari per la vicenda Olgettine, punta alla riabilitazione da Strasburgo per ricandidarsi. Neppure Salvini e Meloni, principali leader di quello schieramento, possono considerarsi politici di primo pelo. Senza contare i tentativi di riorganizzazione dell’area post-fascista orchestrati da Storace e Alemanno, politici di lungo corso. Perfino Umberto Bossi, fondatore, negli anni Ottanta, di una Lega di rottura, anti-casta, oggi si ritrova ad occupare uno scranno parlamentare che il neosegretario del Carroccio Salvini vorrebbe non rinnovargli. Ma niente paura, Berlusconi ha già assicurato a Bossi che per lui una candidatura sicura in Forza Italia ci sarebbe sempre.
Probabilmente in nessuna democrazia del mondo sulla giostra della politica si sale da giovani e non si scende per decenni, o addirittura si fa finta di scendere ma poi si ritorna più ringalluzziti e sfrenatamente ambiziosi che mai. Il ritorno alla Prima Repubblica verrà formalizzato con le prossime elezioni politiche che, rebus sic stantibus, a giugno, in autunno o a scadenza naturale, ci consegneranno un Paese ancora più frammentato e ingovernabile di quello attuale, con una classe dirigente selezionata in modo verticistico e autoreferenziale da partiti sempre meno rappresentativi dell’elettorato, soprattutto di quello giovane. Ce n’è abbastanza per essere preoccupati. La restaurazione è servita.