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MEDIO ORIENTE

Il rapimento dei tre ragazzi riaccende la Cisgiordania

A cinque giorni dalla scomparsa dei giovani ebrei la tensione tra Israele e Autorità palestinese potrebbe sfociare in qualcosa di molto più grave. Abu Mazen dimostra di non controllare il territorio, Netanyahu ne approfitta per arrestare quanti più militanti di Hamas è possibile. E tra i coloni c'è una pericolosa voglia di farsi giustizia da sé.

Esteri 18_06_2014
Ridateci i nostri ragazzi

È una specie di legge non scritta: ogni volta che Israele si ritrova isolato nell’opinione pubblica internazionale ci pensa prontamente una manina palestinese a togliere allo Stato ebraico le castagne dal fuoco. Attirando contemporaneamente su tutti gli altri palestinesi una ritorsione molto pesante. È proprio quanto sta accadendo in queste ore in Cisgiordania, dopo che da giovedì sera mancano all’appello Eyad, Gilad e Neftali, tre adolescenti spariti mentre tornavano a casa nell’insediamento di Nof Ayalon dalla loro yeshivà, la scuola rabbinica in cui studiano, che si trova nel Gush Etzion, il grande blocco di insediamenti sulla strada tra Hebron e Betlemme.

Da cinque giorni è caccia all’uomo nei Territori per trovare i tre ragazzi «rapiti da Hamas», come prontamente ha tuonato il premier israeliano Benjamin Netanyahu. E chi ha fatto sparire i ragazzi non poteva offrirgli un assist migliore, dopo che da settimane ormai il leader del Likud puntava il dito su Abu Mazen, reo di avere giocato - dopo il fallimento dell’ennesimo negoziato fondato sul nulla - proprio la carta dell’accordo con Hamas per un governo di riconciliazione nazionale palestinese. Governo accolto non poi così male dalla comunità internazionale, anche perché formato da quei «tecnici» che riscuotono sempre tanta simpatia. E per di più con la conferma a premier di Rami Hamdallah, un fedelissimo di Abu Mazen.

Solo che alla prova dei fatti il governo palestinese si è subito rivelato per quello che è: un’entità che non controlla proprio nulla, non solo a Gaza ma nemmeno in Cisgiordania. E così da cinque giorni è direttamente l’esercito israeliano a cercare i tre ragazzi, senza andare troppo per il sottile. Con in più una pericolosa voglia di farsi giustizia da sé che aleggia tra i coloni di Hebron, che non sono esattamente un modello di garantismo e fedeltà allo Stato di diritto.

A pochi giorni dalla preghiera del Papa nei Giardini Vaticani accanto ad Abu Mazen e al presidente israeliano Shimon Peres, la Terra Santa si trova così di nuovo a sprofondare nelle sue contraddizioni. In una spirale che - come al solito - lascerà dietro di sé strascichi pesanti. Anche perché, più che a ritrovare i ragazzi, Netanyahu sembra pensare oggi a cogliere l’occasione per arrestare il maggior numero possibile di esponenti di Hamas in Cisgiordania, visto che le circostanze glielo permettono senza troppe obiezioni. Il tutto condito dalle solite punizioni collettive - chiusure dei check-point, restrizioni ai permessi... - che vanno a colpire soprattutto i più deboli in Palestina.

Chi ha fatto sparire i tre ragazzi, dunque, ha fatto ancora una volta il favore più grande alle frange più estremiste dei coloni israeliani che vivono in Cisgiordania: ha permesso anche questa volta a Israele di non guardare in faccia alle sue contraddizioni. Consentendo, ad esempio, di far finta che sia una cosa normale che tre adolescenti vivano nel mezzo di un conflitto costellato da centinaia di screzi quotidiani intorno a ogni palmo di terra e poi si spostino da casa a scuola in autostop, per ostentare una normalità che non esiste. Ma sta anche permettendo a Netanyahu di continuare da vent’anni a parlare solo del terrorismo palestinese senza mai essere costretto a dire come dovrebbe essere la pace secondo lui. E lasciando il Medio Oriente ancora una volta schiavo del proprio passato. Rispedendo, così, al mittente l’appello rivolto appena venti giorni fa da Papa Francesco ai ragazzi del campo profughi di Betlemme:  «Non lasciate mai che il passato determini la vostra vita».

C’è da augurarsi che finisca presto questo incubo per i tre ragazzi ebrei, per le loro famiglie, ma anche per tante migliaia di palestinesi, vittime anche loro di una storia folle. Questo infatti non sarà un nuovo caso Gilad Shalit, il soldato israeliano rapito a Gaza nel 2006 e rimasto per cinque anni nelle mani dei suoi sequestratori, prima di arrivare a un accordo con Hamas conclusosi con il rilascio di un migliaio di prigionieri palestinesi. Stavolta il luogo e le modalità del sequestro sono molto diverse. E ogni minuto che passa il rischio che questo episodio diventi la miccia per qualcosa di ancora più devastante si fa pericolosamente più alto.