Il profeta dello smarrimento dell’uomo contemporaneo
Grande drammaturgo, romanziere, novelliere, l’agrigentino Luigi Pirandello (1867-1936) è uno dei più grandi geni del Novecento, letterato e, al contempo, filosofo. In lui sembrano incarnarsi le parole di Leopardi nello Zibaldone: «Il vero poeta è anche filosofo e il vero filosofo è anche poeta».
Grande drammaturgo, romanziere, novelliere, l’agrigentino Luigi Pirandello (1867-1936) è uno dei più grandi geni del Novecento, letterato e, al contempo, filosofo. In lui sembrano incarnarsi le parole di Leopardi nello Zibaldone: «Il vero poeta è anche filosofo e il vero filosofo è anche poeta». Non sarà, forse, un caso allora se l’esordio di Pirandello è poetico, anche se poi l’autore trascurerà quella strada per dedicarsi alla prosa e al teatro, in cui emerge la sua più grande vena creativa.
La genialità di un autore riesce a comprendere la cultura della propria epoca, attraverso segni che i propri contemporanei non sono in grado di cogliere. Per questo le opere di Pirandello non potevano essere capite nei primi decenni in cui circolavano. A distanza di tanti anni, appare chiaro come descrivessero la perdita della bussola dell’uomo contemporaneo, ovvero, per dirla con Hans Sedlmayr, la perdita del centro, cioè la scomparsa della centralità dell’io.
Con queste parole, a soli ventitré anni, Pirandello si rivolge alla sorella Lina il 31 ottobre del 1886: «Noi siamo come i poveri ragni, che per vivere han bisogno d’intessersi in un cantuccio la loro tela sottile, noi siamo come le povere lumache che per vivere han bisogno di portare a dosso il loro guscio fragile, o come i poveri molluschi che vogliono tutti la loro conchiglia in fondo al mare. Siamo ragni, lumache e molluschi di una razza più nobile – passi pure – non vorremmo una ragnatela, un guscio, una conchiglia - passi pure – ma un piccolo mondo sì, e per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, una occupazione – ecco il piccolo mondo, ecco il guscio di questo lumacone o uomo – come lo chiamano. Senza questo è impossibile la vita».
Meno di vent’anni più tardi, ne Il fu Mattia Pascal, lo scrittore siciliano profetizza in maniera drammatica quel clima culturale che nel 2005 nella Missa pro eligendo romano Pontefice il cardinale Joseph Ratzinger avrebbe definito «dittatura del relativismo». Pirandello affida alle parole di Anselmo Paleari le sue riflessioni più interessanti sulla contemporaneità. Il logorroico appassionato di filosofia utilizza l’immagine del lanternino per rappresentare il concetto di visione del mondo e della vita. In alcune epoche storiche, questi lanternini individuali, connotati da colori differenti, assumono lo stesso colore: «In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? […] Non sono poi rare nella storia certe ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternini». Proprio così è accaduto nell’epoca contemporanea, in cui ciascuno cammina al buio con il suo lanternino e non sa più a chi rivolgersi. Oggi, spenti tutti i lanternoni del passato, l’epoca contemporanea assiste all’accensione di un nuovo lanternone culturale del relativismo. Non più certezze cui guardare, ma un’unica certezza, quella che non vi sono verità.
Così, sempre ne Il fu Mattia Pascal, Pirandello riflette sulla differenza tra l’uomo antico e l’uomo moderno: «Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe?[…] Oreste rimarrebbe sconcertato da quel buco nel cielo. [...] Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cadere le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto». All’eroe antico, Oreste, che opera con caparbietà e decisione si sostituisce Amleto, un uomo preso dal dubbio sulla realtà e sull’evidenza delle cose, inerte, incapace di agire, di operare.
Ancora tanta produzione pirandelliana documenta quella cultura che gradualmente, già all’inizio del secolo scorso, è diventata dominante, che ha smarrito il metodo, cioè la giusta strada, per arrivare alla verità. Se la Luna rappresenta la verità, è come se l’uomo moderno avesse smarrito il mezzo per arrivare sulla Luna. Il romanzo Suo marito sottolinea in maniera particolarmente efficace questa incapacità conoscitiva dell’uomo moderno. Una donna è scacciata dal marito perché accusata di tradimento quando lei è, invece, innocente. A questo punto la presunta colpevole si fa ospitare in casa dall’uomo sospettato di essere il suo amante. Tra i due nasce davvero una relazione sentimentale. Il marito, riconosciuta, però, l’innocenza della donna, la riaccoglie in casa quando davvero si è macchiata della colpa. Per il lettore appare chiara l’oggettività della realtà. Sono i personaggi dell’opera che, come marionette sul palco, risultano limitati e incapaci di coglierla. Così, la realtà si presenterà differente a seconda del punto di vista da cui si osserverà la scena. La realtà sarà come uno specchio, frantumato in centinaia di pezzi: lo spettatore che vi sta di fronte vedrà immagini riflesse differenti, parziali e grottescamente deformate. Noi stessi appaiamo diversi a seconda dell’osservatore che ci sta davanti e del punto di osservazione in cui si trova.
Per questo la produzione del genio siciliano invece di essere compresa, è stata ridotta a formule ed etichette. Pirandello si è sempre scagliato con rabbia contro quanti hanno semplificato la sua produzione riducendola a quei pochi concetti e a quelle parole chiave che compaiono per lo più sulle antologie scolastiche e sui saggi a lui dedicati. La critica letteraria ha ridotto le sue opere a sistema e a welthanschauung e ha semplificato la magmatica e voluminosa novità dei suoi testi in definizioni riduttive come «pirandellismo» e «relativismo». L’Agrigentino ha, in realtà, cercato sempre nella sua produzione la verità sull’uomo e, in particolar modo, nella trilogia del mito, scritta tra il 1928 e il 1936 (anno della morte), ha tentato di rintracciare la verità nell’ambito socio-politico, in quello artistico e in quello religioso: La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna.
Ci stupisce l’articolo del 15 dicembre 1931 in cui Pirandello scrive: «(La mia) opera trova già prevenuti tanto il giudizio della critica quanto l’attesa del pubblico, per colpa di tutte quelle concezioni astratte e stravaganti sulla realtà e la finzione, sul valore della personalità […] che non sono altro se non le deformazioni cristallizzate di due o tre delle mie commedie, di quelle due o tre che sono arrivate per prime a Parigi, proprio al momento in cui il mio nome ha preso il volo: questo nome che, per colmo di sventura, non nemmeno più il mio nome, ma è diventato la radice della parola «pirandellismo»». Per ironia della sorte colui che ha lottato per la vita contro la finzione, per la sostanza al di là del nome, è stato ridotto a nome. Il suo pensiero che ha evidenziato l’impossibilità di mettere ordine nel magma caotico dell’esistenza è diventato il sistema del «pirandellismo». Lui stesso è diventato emblema del relativismo, quasi come ne fosse interprete, depositario e corifeo e non piuttosto abile demistificatore e potente, nonché geniale profeta e anticipatore di certe tendenze culturali dilaganti.
Per questo Pirandello si ribella e grida «Abbasso al pirandellismo!». Scrive ancora nell’articolo di cui sopra: «Mi si permetta di dire che nessuna delle mie opere che sono tutte nate al di fuori della tesi e degli apriorismi filosofici, è malata di pirandellismo. Sono state modestamente concepite e composte da uno scrittore che si chiama Pirandello e che nel momento in cui scriveva non immaginava nemmeno lontanamente la disavventura che lo attendeva, e non poteva prevedere che queste opere fossero predestinate a essere catalogate sotto una etichetta unica, sotto una formula immutabile, di un carattere rigido e definitivo. A nome della mia opera tutta intiera,… mi ribello contro la mia fama e contro il pirandellismo e arrivo fino a dichiarare di essere pronto a rinunciare al mio nome, pur di riconquistare la libertà della mia immaginazione di scrittore». Pirandello, però, ci avverte: «Forse non esiste scrittore più sconosciuto di uno scrittore celebre!». E come nasce la celebrità? «Nasce il giorno in cui, non si sa come né perché, il nome di uno scrittore si stacca dalle sue opere, mette le ali e spicca il volo. Il nome!... Le opere sono molto più serie: non volano, ma camminano a piedi, è per conto loro, con il loro peso e il loro valore, a passi lenti». Così, mentre il nome di Pirandello è a Parigi e ha girato tutto il mondo, le sue opere letterarie «continuano a piedi la loro strada, a passi pesanti, e sono naturalmente rimaste indietro».