Il problema è lo strapotere dei giudici, non la legge elettorale
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I clamorosi casi di Puglia e Liguria indicano che è in atto una nuova offensiva della magistratura tesa a screditare la politica per impedire qualsiasi riforma della giustizia. Attendiamoci quindi altri scossoni giudiziari.
Le inchieste liguri che vedono coinvolto il governatore Giovanni Toti, il suo entourage e alcuni influenti imprenditori è solo l’ultimo in ordine di tempo. Nelle settimane precedenti si erano registrati scossoni giudiziari in Puglia e in Sicilia. Ora tocca alla Liguria e magari fra un po la Tangentopoli delle regioni (così l’ha ribattezzata Giuseppe Conte) potrebbe riservare altri capitoli anche altrove.
Nel centrodestra Toti viene difeso poco e con imbarazzo e quindi potrebbe capitolare a breve. Le sue dimissioni sembrano imminenti, visto che i capi d’accusa crescono e che il suo capo di gabinetto ha lasciato proprio ieri. Giorgia Meloni è per la linea delle dimissioni perché ritiene che il caos ligure possa danneggiare i partiti di governo nelle urne amministrative ed europee dell’8 e 9 giugno. Sulla stessa lunghezza d’onda Antonio Tajani, segretario di Forza Italia, che non ha mai amato più di tanto Toti e che quindi non intende farsi trascinare nelle polemiche su giustizialismo e garantismo. Solo Matteo Salvini continua a sostenere che Toti non dovrebbe dimettersi e che se ogni politico dovesse lasciare l’incarico sulla base di insinuazioni o di quello che c’è scritto nelle ordinanze di custodia cautelare non saremmo più in uno Stato di diritto. E su questo, in punto di diritto, ha pienamente ragione.
L’impressione è che dopo le europee, a prescindere dall’esito che avranno, potrebbero esserci alcune manovre di assestamento, a cominciare dal rimpasto di governo. Meloni potrebbe alzare il prezzo, forte dei consensi in crescita, e sfilare alcune poltrone ministeriali ai leghisti per darle a qualcuno dei suoi. C’è chi addirittura ipotizza che il premier sia tentato da elezioni anticipate per consolidare il suo potere a Palazzo Chigi e su questo punto potrebbe avere un alleato inaspettato nel Quirinale, che in caso di scioglimento anticipato delle Camere tirerebbe un sospiro di sollievo perché vedrebbe allungarsi notevolmente i tempi delle due riforme più importanti che il governo sponsorizza, premierato e autonomia differenziata, che risultano entrambe indigeste a Sergio Mattarella.
Ma la nuova offensiva giudiziaria è scoppiata in ambito regionale, nonostante si sia detto per anni che i vertici regionali sono quelli più stabili poiché eletti direttamente dal popolo con una legge elettorale che garantisce governabilità e controllo popolare sull’operato degli amministratori. In molti anzi auspicavano fino a poco tempo fa l’estensione alle elezioni politiche del sistema elettorale adottato nelle Regioni, poiché considerato affidabile, democratico e pieno di pesi e contrappesi per assicurare che i mandati durino fino alla fine.
E allora come si inquadra la tempesta giudiziaria degli ultimi mesi in alcune importanti regioni italiane? Significa che il sistema elettorale regionale favorisce corruzione, malaffare e interruzioni anticipate dei mandati? Sarebbe fuorviante ragionare in questi termini e, soprattutto, significherebbe perdere di vista il nodo cruciale dello sfilacciamento socio-politico in corso nel nostro Paese. A determinare questi stravolgimenti della vita naturale delle maggioranze che governano le regioni è soprattutto la mancanza di equilibrio tra i poteri, con una magistratura a tratti debordante che si insinua nelle fragilità del sistema politico e fa leva sul nervo scoperto dei finanziamenti privati ai partiti.
La discrezionalità delle toghe nell’incriminare politici e imprenditori sulla base delle donazioni fatte a chi amministra la cosa pubblica è una vera patologia democratica, che può in qualunque momento determinare la fine di un’esperienza politica e favorire un cambio di colore politico.
Non si può dunque parlare di fallimento del sistema elettorale in vigore nelle Regioni perché, qualunque fosse il meccanismo di voto, sarebbero i magistrati a orientare il corso della vita politica con le loro inchieste. In un Paese come il nostro in cui la magistratura rifiuta qualunque riforma e pretende di mantenere inalterati i suoi privilegi, non può esistere alcuna legge elettorale intrinsecamente buona o intrinsecamente cattiva. I mandati elettorali durano fino a quando non intervengono fattori esterni alla politica, quasi sempre iniziative giudiziarie, che finiscono per alterare il rapporto tra governanti e governati, spesso anche con l’ausilio di cronisti giudiziari “in buoni rapporti” con alcune procure e che alimentano la cosiddetta gogna mediatica.
In questo momento la magistratura ha due nemici da combattere: la riforma del premierato, che rafforzerebbe la politica e indebolirebbe il potere giudiziario, impedendogli di speculare sulla vulnerabilità dei partiti; la separazione delle carriere.
Trattandosi di cambiamenti che il governo appare seriamente determinato a portare avanti, non è difficile prevedere altri scossoni giudiziari come quello ligure, destinati a raggiungere il ben noto obiettivo: screditare la politica per riaffermare, agli occhi dell’opinione pubblica, il prestigio della magistratura e impedire così qualsiasi riforma.
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