Il pittore “divino” che ha ispirato anche la musica
Il grande pittore di Urbino, oltre ad aver influito su generazioni di artisti, è stato fonte di ispirazione pure in campo musicale. A lui fu dedicato, un secolo fa, l’inno A Raffaello Divino, di Marco Enrico Bossi. Di lui parlò anche san Giovanni Paolo II, che nella Lettera agli Artisti scrisse come Raffaello, nei suoi dipinti, trattò del «mistero della rivelazione del Dio Trinitario, che nell’Eucaristia si fa compagnia dell’uomo».
Ricorre quest’anno il cinquecentenario della morte di Raffaello Sanzio (1483-1520), il pittore a cui dobbiamo un ingente patrimonio di inestimabile bellezza e grazia.
Questo insigne artista morì «di una febre continua et acuta, che già octo giorni l’assaltò» - come scrive tristemente Alfonso Paolucci ad Alfonso I d’Este, duca di Ferrara (G. Campori, Notizie inedite di Raffaello da Urbino, Modena 1863, p. 30) - a soli 37 anni il 6 aprile 1520, a Roma, nella fastosa residenza a pochi passi dal Vaticano che egli aveva comprato dai Caprini di Viterbo il 7 ottobre 1517 e dove visse gli ultimi anni di vita: oggi, dopo i sommovimenti edilizi nel rione Borgo intervenuti tra il 1937 e il 1941, è il Palazzo cosiddetto dei Convertendi ubicato in via della Conciliazione 34, già costruito su disegno di Donato Bramante un decennio prima sull’antica Piazza S. Giacomo, detta Scossacavalli. Da cento anni anche le parole dello storico dell’arte Corrado Ricci, scolpite su una lapide murata nell’androne del Palazzo, ne tramandano il ricordo: «QUI FU LA CASA / COSTRUTTA DAL BRAMANTE PEI CAPRINI / RAFFAELLO SANZIO / COMPRATALA NEL MDXVII / VI MORÌ IL VI APRILE MDXX / IL CIRCOLO MARCHIGIANO DI ROMA POSE».
Se l’Ufficio Filatelico e Numismatico Vaticano gli dedica una moneta bimetallica da 2 euro e un francobollo, noi offriamo una commemorazione musicale del grande pittore di Urbino parlando di A Raffaello Divino, inno per coro misto a voci sole, musica di Marco Enrico Bossi su versi di Fausto Salvatori (Ediz. J. Church, New York 1921), scritto nel marzo 1920 in occasione del quarto centenario della morte di Raffaello ed eseguito il 7 aprile dello stesso anno nella basilica romana di Santa Maria ad Martyres, l’antico Pantheon. Non sembra disponibile alcuna registrazione sonora; perciò dobbiamo accontentarci solo di parlarne, fondandoci sulla partitura e sulle relative notizie storiche.
Il letterato romano Fausto Salvatori (1870-1929), autore del notissimo Inno a Roma musicato da Giacomo Puccini nel 1919, aveva scritto la seguente elegia: «Maestro, che dormi sereno / Nell’urna ombreggiata d’alloro, / Un Cantico pieno solenne sonoro / Ascolta nel sacro silenzio salir. // Un dono ch’è gioia, ch’è luce / Trasmisero a noi le tue mani: / Al sol che riluce sui colli lontani / La grande Umbria verde par tutta fiorir. // o gioia di pargoli biondi! / O riso di Vergini Sante! / Dai cieli profondi il puro sembiante / Sul Figlio divino la Madre chinò. // Eterno è sul mondo l’Aprile / Per te, giovinezza d’Italia! / Il nome gentile che affascina e ammalia / Nel Pantheon di Roma la Patria cantò».
Il celebre organista e compositore Marco Enrico Bossi (1861-1925) - di cui abbiamo trattato qui - era allora direttore del Liceo musicale di Santa Cecilia, a Roma, incarico che ricoprì dal 1916 al 1922. Nel marzo 1920 compose una breve partitura di quattordici pagine sui versi di Salvatori, qui commentata autorevolmente dal musicista Giulio Cesare Paribeni: «Di stile piuttosto armonico che contrappuntistico, si vale molto della modulazione e delle combinazioni foniche, per effettuare i passaggi espressivi richiesti dal testo. La struttura corale è sempre libera nel numero delle parti che, impostate sul quartetto misto normale, si dividono poi sino a dare in qualche punto complessi di nove elementi d’armonia. Anche nell’uso delle tessiture vocali, l’autore si spinge ad insolite libertà, ma sempre con l’oculatezza di chi affida le ragioni dell’effetto ad una sicura perizia tecnica. Alla chiusa le voci imitano un gioioso squillare di ottoni» (Paribeni - Orsini - Bontempelli, M. E. Bossi, il compositore, l’organista, l’uomo, Casa Editrice Erta, Milano 1934, p. 38).
Cento anni fa, nel pomeriggio del 7 aprile, dopo aver scoperto la lapide sopra menzionata, un corteo popolare, guidato dagli amministratori comunali e formato da artisti, aggregazioni varie, delegati della città d’Urbino e romani, si recò al Pantheon, dove il pittore è ancora oggi sepolto dal 7 aprile 1520 nella tomba marmorea che aveva acquistato. Su di essa si può leggere il memorabile distico latino composto dal letterato Pietro Bembo, amico dell’artista: «Ille hic est Raphael. Timuit quo sospite vinci / rerum Magna Parens, et moriente mori» [Qui giace Raffaello. Mentre era in vita, la Gran Madre delle cose (la Natura) temeva di essere vinta; ora che è morto, teme di morire pure essa]. Al Pantheon attendevano l’intero Capitolo dei Canonici della Basilica collegiata, il rappresentante del Governo, i Virtuosi al Pantheon (la Pontificia Insigne Accademia che dal 1542 annovera i più importanti artisti) e altre persone d’ufficio. Dopo la deposizione di corone di alloro e di fiori, un coro di 120 voci della Regia Accademia di Santa Cecilia - una delle più antiche istituzioni musicali al mondo di cui Bossi era socio accademico dal gennaio 1917 - eseguì A Raffaello Divino, sotto la direzione del compositore.
Chissà che durante il 2020, già definito come l’Anno Sanzio, non torniamo ad ascoltare questa partitura di Bossi, reperibile ormai soltanto in qualche biblioteca musicale! Intanto ascoltiamo, per così dire, la voce del maestro urbinate che, servendo la Chiesa Romana sotto i pontificati di Giulio II e Leone X, insieme ad altri ha riversato nel Palazzo Apostolico Vaticano le ricchezze del suo genio, «intriso spesso di grande profondità spirituale. […] Da qui parla il genio delicato e profondo di Raffaello, additando nella varietà dei suoi dipinti, e specie nella “Disputa” della Stanza della Segnatura, il mistero della rivelazione del Dio Trinitario, che nell’Eucaristia si fa compagnia dell’uomo, e proietta luce sulle domande e le attese dell’intelligenza umana» (Giovanni Paolo II, Lettera agli Artisti, 4 aprile 1999, n. 9).