Il piccolo Giovanni e il confine tra vita degna e indegna
Madre partorisce e getta il figlio dalla finestra. Ora per tutti è il mostro. Ma se si fosse decisa prima, avrebbe potuto abortire e anziché Medea, sarebbe stata riconosciuta tra le donne libere ed autodeterminate. Allora perché si parla di aborto post nascita e di eutanasia infantile? Qual è il criterio che separa una vita degna da una indegna? Il fatto di essere sfracellata sulla strada e non nel chiuso di una clinica?
Hanno messo il nome e cognome, hanno messo la foto del profilo Facebook e sono andati a scartabellare nei suoi post di alcuni mesi fa. Perché lei ora è il mostro come ci indica il feroce tribunale dei social. «Ma non ti fai schifo?», «devi crepare!» sentenziano adesso sconosciuti aizzati dalle gazzette della cronaca, quelle per le quali il mestiere del giornalista è dare le notizie secondo il canovaccio prestabilito. Senza interrogarsi troppo, senza farsi venire troppi scrupoli di coscienza sulla sequenza logica delle cose. Invece un ragionamento logico, freddo, ma non meno caritatevole va fatto a costo di apparire per provocatori e disturbatori della vulgata abortista come atto di libertà e di autodeterminazione.
Lei ha poco più di 30 anni e vive a Torino col marito, hanno un figlio, ha fatto la barista. La classica famiglia normale, di quelle che nei condomini saluti con buongiorno buonasera. Dice - ora che è stata arrestata - di non sapere che fosse incinta e nemmeno il marito e neppure il padre con il quale i rapporti si erano fatti di nebbia. Possibile? Forse no, o forse sì, quel che è certo è che dietro c’è una grande storia di miseria e povertà spirituale, che ora verrà pagata con la giustizia.
Ha buttato il figlio appena nato dalla finestra e lui, il piccolino, è morto sul colpo, trovato da un netturbino che non ha potuto fare altro che chiamare il 118 nella speranza di rianimarlo. Perché è questo il mestiere del medico: salvare vite, rianimarle con la medicina e la cura se stanno per spegnersi. Non è quello di soffocarne la voce.
Ora per lei si apriranno le porte del carcere e un cammino ancora più doloroso: se le risultanze del Pm dovessero essere confermate e si dovesse arrivare a processo la donna sarà condannata per infanticidio. Reato odioso, che infiamma appunto i post inferociti di cui sopra.
Eppure qualche cosa non torna, qualche cosa appare come una nota stonata in una sinfonia che deve girare in armonia per il bene di tutti: per il bene delle donne libere e autodeterminate, per il bene della giustizia, per il bene del senso civico, ché non sta bene sfracellare un bambino sulla strada mentre la gente va a lavorare, così sotto gli occhi di tutti. No, non sta bene, certo.
Sembra di sentirlo il perbenismo imborghesito di chi magari in gioventù cantava Contessa e non si rende conto di essere passato cinicamente dalla sua parte. Sembra di sentirli: «Che roba contessa, all’industria di Aldo, han fatto lo sciopero quei quattro ignoranti, volevano avere i salari aumentati. Dicevano, pensi, di essere sfruttati». Però di fronte ai tanti bambini aspirati nel chiuso delle cliniche della sanità pubblica quella indignazione delle masse non c’è. Non c’è nessuno di quegli “imborghesiti” che urla «voi gente per bene che pace cercate, la pace per far quello che voi volete. Nessuno più al mondo deve essere sfruttato».
Perché per abortire un bambino questa indignazione non vale.
In effetti a questa povera donna sarebbe bastato decidersi prima e rivolgersi in una struttura pubblica. Appena uno o due mesi prima e quel mostro sarebbe diventata invece una donna autodeterminata e forte. Di lei non si sarebbe scritto nulla, sarebbe entrata di diritto nel club dei milioni di donne che hanno deciso per la propria libertà firmando però lo stesso angoscioso rimorso della nostra Medea.
Eppure in un Paese “civile" queste cose non dovrebbero accadere. Cioè, il capo di imputazione: omicidio aggravato, che paroloni. In un Paese “civile” il reato di cui dovrebbe rispondere dovrebbe essere ritardo aggravato. E’ il ritardo nel decidere se abortire e gettare nella spazzatura una creatura che non si vuole riconoscere tale o partorire e gettare dalla finestra una creatura che d’improvviso acquista in quel frangente la dignità di essere umano che prima gli sarebbe stata negata. E’ questo sottile e ipocrita discrimine a determinare il corso degli eventi. E' questo ormai il crinale tragico che separa una vita indegna da una degna di essere vissuta, che separa il “dai non ci pensare più” dal “adesso devi pagare”.
E allora perché si parla con così tanta insistenza di aborto post natale? Perché si accetta - anche da noi - il dibattito politico dell'eutanasia infantile? Perché ci costringono a fissare una differenza morale tra il valore di un feto e quello di un neonato. Di là la vita, di qua la morte. Così è deciso. E allora perché scandalizzarsi?
L’hanno chiamato Giovanni, il piccolo angioletto vittima della sua stessa mamma. Almeno ha avuto un nome, ma quanti Giovanni non sono e non saranno onorati di un nome solo perché una legge consente che loro non possano esistere? Delle due l’una: o la donna non è colpevole, se non appunto di ritardo e allora smettiamola col mostrificare il suo gesto o tutte le altre donne che sono passate dal lettino dell’abortista sono colpevoli. Le anime belle diranno che non si può colpevolizzare, in quei casi la donna è libera di scegliere, magari è costretta dagli eventi, dalla povertà, dall’incoscienza, chi siamo noi per giudicare?
Appunto, e allora non potremmo dire lo stesso di lei? Non è forse anche lei, questa Medea dei tempi nostri, anch’essa vittima delle circostanze, della miseria, dell’egoismo, di una situazione psicologica instabile e della precarietà spirituale nella quale questa società ha forgiato le sue leve? Ma lei andrà in carcere. Perché il mondo ha visto la sua creatura sfracellata sull’asfalto. Perché certe cose non si devono vedere, Contessa, guardi che roba…di prima mattina poi.