Il piano Marshall per l'Africa che gli africani non vogliono
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L'Italia propone un "modello virtuoso di collaborazione e crescita" per il Continente Nero che però si scontra con la realtà di troppi Paesi in cui la corruzione è stile di vita e gli aiuti favoriscono dittatori e autocrati.
Dal Piano Mattei, annunciato a gennaio e rilanciato ad aprile dal governo italiano durante un viaggio in Etiopia del primo ministro Giorgia Meloni, a un «grande Piano Marshall per l’Africa che non si limiti all’impegno dell’Italia, ma si allarghi all’Europa, ai Paesi del Golfo, e magari alla Turchia e agli Stati Uniti». È questa l’iniziativa con cui l’Italia intende assumere la guida dei rapporti con il continente africano e con il futuro dei suoi Paesi, con quattro obiettivi: realizzarne lo sviluppo, sottrarlo all’influenza della Cina e di altri stati, contrastare la diffusione del jihad, fermare l’immigrazione illegale.
«Vogliamo affrontare la questione africana attraverso una strategia di investimenti ampia — ha dichiarato nei giorni scorsi il ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani – che passi da impegni concreti, guardando con occhio da amico e non da colonizzatore. Non vogliamo essere predatori. Dobbiamo aiutare a creare aziende e un tessuto industriale, anche attraverso delle joint venture, senza sfruttare i Paesi che hanno materie prime».
Il primo ministro Meloni ha usato espressioni simili: quello italiano deve essere un «modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione Europea e nazioni africane, un modello di cooperazione non predatorio, in cui entrambi i partner devono poter crescere e migliorare» e, dice, «ci stiamo lavorando, soprattutto ascoltando e coinvolgendo i Paesi africani». Durante l’incontro con il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, il 27 luglio alla Casa Bianca, il nostro primo ministro ha sottolineato che i rapporti con gli Stati africani devono essere «tra pari»: «dobbiamo essere corretti – ha detto – con le nazioni che sono state sfruttate nelle loro risorse».
La risposta africana arriverà nei prossimi mesi. Il 23 luglio a Roma, alla Conferenza Internazionale su sviluppo e migrazioni organizzata dal nostro governo, sono stati invitati e hanno partecipato otto Paesi africani: Algeria, Egitto, Tunisia, Libia, Mauritania, Marocco, dalle cui coste partono la maggior parte degli emigranti illegali, Etiopia e Niger, quest’ultimo strategico perché è attraversato da una delle rotte più battute dagli emigranti ed è sede di uno dei più importanti hub in cui si concentrano in attesa di attraversare il deserto, la città di Agadez. A ottobre si svolgerà la Conferenza Italia-Africa in cui sarà illustrato e proposto il Piano Mattei. Si vedrà come sarà accolto e da chi. Ma è inutile negare che molti, troppi africani non sono allettati dalla prospettiva di un rapporto “alla pari” con altri Stati, da “amici” uniti nella realizzazione di un «modello virtuoso di collaborazione e di crescita».
La corruzione sfrenata, irresponsabile e devastante che in Africa è diventata, come dicono in Nigeria, uno “stile di vita” e che pervade la vita sociale, economica e politica, a ogni livello, è causa di un immenso spreco di risorse e non risparmia quelle offerte a vario titolo come aiuto allo sviluppo. Da decenni, che si tratti di progetti di cooperazione internazionale o di accordi bilaterali tra Paesi, sull’Africa già si sono riversati migliaia di miliardi di dollari sotto forma di doni, di investimenti e di prestiti (questi ultimi a condizioni quasi sempre estremamente favorevoli, addirittura in certi casi senza interessi). L’esito è stato modesto, molto al di sotto delle aspettative e della quantità di risorse impegnate.
Anni fa la Banca Mondiale aveva calcolato che ogni 10 dollari che arrivano in Somalia – doni, prestiti, finanziamenti – 7 sparivano, intascati da chiunque riuscisse a metterci le mani. Spariscono di continuo persino gli aiuti alimentari destinati alle popolazioni colpite da carestia, per ricomparire venduti nei mercati locali. Prima di decidere di impegnare altri miliardi di dollari in un grande Piano Marshall per l’Africa, meriterebbe rileggere un libro, La carità che uccide di Dambisa Moyo, pubblicato nel 2009. L’economista zambiana, vivacemente contestata all’epoca, ha denunciato «la corruzione sfrenata su scala strabiliante» che caratterizza la politica africana. «Le enormi somme degli aiuti – sosteneva – non solo incoraggiano la corruzione, ma la generano. I fondi che arrivano dall’estero sono infatti molto facili da sottrarre o dirottare. Questo fiume di denaro che arriva dall’alto è estremamente distruttivo…».
In simili contesti, c’è chi vuole un modello virtuoso di collaborazione che produca sviluppo? Se lo domandava 30 anni fa la sociologa camerunese Axelle Kabou fa in un libro, anch’esso da rileggere, che fece molto discutere, E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo? È una domanda che è ancora necessario porsi.
Complessa, poi, è la scelta dei Paesi africani su cui puntare, quelli da «ascoltare e coinvolgere». Uno era il Niger non solo perché è attraversato da una delle rotte più usate dalle reti criminali che organizzano i viaggi degli emigranti illegali. È in Niger infatti che la Francia e gli alleati europei hanno trasferito la base delle loro truppe in lotta contro i gruppi jihadisti dopo aver deciso di lasciare il Mali troppo inaffidabile, in mano ai militari autori nel 2021 del secondo colpo di stato in meno di un anno. Ma il 27 luglio in Niger un colpo di Stato militare ha deposto presidente e governo. «Investire su autocrati e dittatori non porta stabilità, rinvia il problema e accende bombe a orologeria politiche e sociali in quei Paesi». L’affermazione è dell’onorevole Benedetto Della Vedova in replica alla risposta del question time del ministro Tajani il 19 luglio. Quello in Niger è il nono golpe in Africa in quattro anni: gli altri in Sudan (due), Chad, Guinea e Burkina Faso, oltre che in Mali.
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