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ORA DI DOTTRINA / 82 – LA TRASCRIZIONE

Il peccato degli angeli decaduti – Il testo del video

Gli angeli sono stati creati buoni. Dunque, Lucifero e gli altri angeli ribelli non hanno peccato “per natura”, ma si sono pervertiti da sé, rifiutando la chiamata alla beatitudine soprannaturale. Caratteristiche del peccato angelico.

Catechismo 17_09_2023

Oggi dedichiamo quest’Ora di dottrina al peccato degli angeli. La domanda che la tradizione cristiana si è posta fin dal principio è proprio questa: da dove viene il peccato? Da dove viene il peccato dell’uomo, primariamente; ma questo peccato dell’uomo richiama a un essere, a una creatura perversa e pervertitrice che tenta l’uomo. Questa creatura o questo insieme di creature, che sono gli angeli decaduti, come hanno peccato?

Un punto chiaro fin dall’inizio e che è stato fissato in modo definitivo nel Concilio Lateranense IV (1215) è il fatto che gli angeli sono stati creati tutti buoni nella loro natura. Dunque, i demoni, gli angeli decaduti, non hanno peccato “per natura”, cioè non sono stati creati malvagi e non preesistono, essendo creature, nell’eternità nella loro malvagità. Ma, appunto, neppure sono stati creati cattivi. Nella Definizione contro gli albigesi e i catari, che abbiamo già richiamato più volte, perché è un testo particolarmente importante, si afferma chiaramente che «il diavolo e gli altri demoni sono stati creati da Dio naturalmente buoni, ma da sé stessi si sono trasformati in malvagi. L’uomo poi ha peccato per suggestione del demonio». Dunque, la caduta, il peccato del demonio è un peccato derivato dalla sua scelta. Il demonio non è stato creato malvagio da Dio.

Nella prima parte della Summa Theologiæ, alla quæstio 63, che ha diversi articoli sulla depravazione degli angeli [decaduti], san Tommaso si domanda se l’angelo possa peccare. Si potrebbe rispondere in due secondi, dicendo che, poiché ha di fatto peccato, chiaramente poteva peccare. Ma affrontare questa questione permette di mettere in luce aspetti più profondi. San Tommaso, nell’articolo 1 della quæstio 63, dove si chiede se negli angeli possa esistere il male della colpa, cioè in sostanza se gli angeli possano peccare, risponde di sì. Ma perché? Perché l’angelo, essendo una creatura, ed essendo una creatura libera, intelligente, morale, può volgersi verso una cosa o verso un’altra. Può seguire nella sua scelta un ordine proprio delle cose che è stato voluto dal suo Creatore.

Chi è che non può peccare? Non può peccare Dio, ed è evidente. E non può peccare la creatura che non è libera, e anche questo è piuttosto evidente. Il leone che sbrana la gazzella non è cattivo, segue quello che è l’istinto proprio della sua natura, per conservarsi; poi per la riproduzione, per conservare la sua specie. Anche se noi, abituati dai cartoni animati che hanno per protagonisti degli animali, attribuiamo magari loro una malizia o una virtù; ovviamente non è su questo livello che si può parlare degli atti propri degli animali. Quindi, né Dio, per eccesso, potremmo dire, né gli animali o le cose o gli esseri viventi non liberi, per difetto, possono peccare; possono peccare quelle creature che sono libere, cioè noi e gli angeli.

Proprio per questa libertà, l’angelo può allontanarsi dalla volontà di Dio; in quanto creatura, ha un aspetto di potenzialità: non è totalmente in atto, come Dio, ma ha un aspetto di potenzialità per cui può una cosa oppure un’altra. Quindi, può allontanarsi dalla volontà di Dio, dall’ordine che Dio pone nelle cose.

Nella risposta alla terza obiezione dell’articolo 1, san Tommaso fa una riflessione molto importante: «È naturale per l’angelo volgersi con un moto di dilezione verso Dio, quale causa del suo essere naturale. Ma volgersi a Dio, in quanto è l’oggetto della beatitudine soprannaturale, non può avere altro principio che la carità, da cui l’angelo poteva allontanarsi col peccato» (ST I, q. 63, a. 1). Cioè, in sostanza, l’angelo, qualsiasi angelo, tende a Dio, ama Dio, come principio del proprio essere. E questo rimane anche per i demoni. Abbiamo visto il tema dell’amore naturale, cioè l’angelo non può non tendere, con la propria volontà, a Dio, perché Dio è il suo principio e il suo fine. Attenzione, però, questo non nega l’altro aspetto che san Tommaso sottolinea, cioè: nel volgersi alla beatitudine che supera la sua natura, la beatitudine soprannaturale, l’angelo può allontanarsi da questa sua chiamata, può resistere o rifiutare, con il peccato, questa sua chiamata. E vedremo che questo è proprio il cuore in qualche modo del peccato angelico.

Nella risposta alla quarta obiezione, san Tommaso traccia un’interessante differenza tra il peccato dell’uomo e il peccato dell’angelo, per far capire che c’è un aspetto comune e un aspetto profondamente differente. E san Tommaso inizia col prendere in considerazione il peccato dell’uomo. «Nell’atto del libero arbitrio ci può essere il peccato in due modi. Primo, se si vuole direttamente un male: come quando un uomo pecca scegliendo l’adulterio, che in sé stesso è un male. Tale peccato procede sempre da una certa ignoranza o errore: altrimenti non si sceglierebbe come bene ciò che in realtà è un male» (ibidem). Attenzione: l’ignoranza non scusa il peccato, ma è costitutiva del peccato. Questo è importante. Oggi c’è questa idea secondo cui l’ignoranza scuserebbe tutto: non funziona in questo modo. È solo l’ignoranza invincibile che scusa dalla malizia del peccato.

Prosegue Tommaso: «L’adultero infatti, spinto dalla passione o dall’abitudine, erra nel suo giudizio particolare, scegliendo il piacere dell’atto disordinato, come se al presente fosse un bene da farsi; e ciò anche qualora nel giudicare la cosa in astratto non cada in errore, ma ne abbia invece una giusta valutazione» (ibidem). Cioè, l’uomo, nel giudizio particolare, può prendere degli inganni, delle cantonate, perché è spinto dalla passione, da una passione malvagia, radicata, che è il vizio, un’abitudine viziosa: questo oscura, in qualche modo, il suo giudizio particolare e gli fa fare una cosa malvagia, anche se magari sa, speculativamente, che è malvagia.

Dunque, per san Tommaso l’atto particolare è costitutivo del peccato. San Tommaso non aderisce all’idea che il peccato ci sia quando c’è un’opzione, semplicemente un’opzione universale per cui si vuole generalmente il male. L’essenza del peccato è invece proprio nell’atto concreto, dove il giudizio erra perché è oscurato dalla passione, dall’abitudine viziosa. Gli angeli, dice san Tommaso, non possono peccare in questo modo; è chiaro, gli angeli non subiscono quelle passioni che per noi diventano passioni che oscurano la nostra ragione, oscurano il nostro giudizio pratico. L’angelo non è soggetto a questa passione, lo abbiamo visto quando abbiamo parlato della natura angelica. Quindi, l’angelo non pecca come pecca l’uomo, eppure pecca.

E qual è la sua specificità? Ce lo dice san Tommaso, spiegando il secondo modo con cui si può peccare con il libero arbitrio, ossia «scegliendo una cosa che in sé è buona, ma desiderandola senza seguire l’ordine stabilito dalla retta regola o misura: cosicché la deficienza peccaminosa non deriva dalla cosa scelta, ma dal modo della scelta, che non è fatta nel debito ordine» (ibidem).

Allora, questa è l’essenza propria del peccato, che è comune anche all’uomo: il cuore del peccato non è la passione che spinge, questo è un elemento in qualche modo concorrente; l’essenza propria del peccato è quella di scegliere qualcosa che in sé può essere anche buono, ma «non nel debito ordine», bensì in modo disordinato. Una cosa buona, ma in un ordine che non è buono; una cosa buona, ma non nel debito ordine. Questo è il cuore, l’essenza del peccato: ecco perché l’angelo può peccare e ha peccato precisamente così. San Tommaso dice: «volgendosi col libero arbitrio al proprio bene senza rispettare la regola stabilita dalla divina volontà» (ibidem). Dunque, questa è l’essenza del peccato e nel caso dell’angelo è l’“esclusiva”, l’elemento esclusivo del peccato, questo volgersi al proprio bene senza rispettare la regola.

Ora, vediamo sempre più da vicino qual è questo peccato. Lo troviamo nell’articolo 2 della quæstio 63, che discende – attenzione – in modo sempre più preciso da quello che stiamo dicendo. Tommaso si domanda, ed è il titolo dell’articolo 2, se negli angeli ci possano essere soltanto i peccati di superbia e d’invidia. Noi uomini abbiamo una gamma decisamente più ampia: la lussuria, l’ira, la gola, eccetera; è piuttosto evidente che questi peccati non sono presenti nell’angelo. Rimangono i peccati più prettamente, esclusivamente spirituali: la superbia e l’invidia.

Questi due peccati sono stati identificati dai Padri, dalla Tradizione della Chiesa come i due peccati fondamentali di Lucifero e degli angeli che lo hanno seguito. San Tommaso armonizza due tradizioni che hanno enfatizzato ora l’una ora l’altra, mettendo in relazione tra loro la superbia e l’invidia.

Spiega Tommaso: «Quanto al compiacimento ci possono essere negli angeli soltanto quei peccati, dei quali può compiacersi una creatura spirituale» (ST I, q. 63, a. 2). Una creatura spirituale non può dilettarsi, compiacersi del piacere, per esempio, venereo, sessuale o legato alla gola. Quindi, l’angelo non si compiace di questi e non si compiace nemmeno dei beni materiali: cosa se ne fa un angelo di una villa o di una BMW o di denaro? Non si compiace di questi beni.

Continua Tommaso: «I beni spirituali non possono dar luogo al peccato per il fatto che uno li desidera [perché i beni spirituali sono beni], bensì perché li desidera in modo non conforme alla regola di Colui che gli è superiore» (ibidem). C’è un bene. Questo bene, proprio perché è un bene, può e deve essere desiderato: è un bene spirituale, un bene superiore. Ma dove entra il peccato qui? Nel desiderare «in modo non conforme alla regola di Colui che gli è superiore. Ma non assoggettarsi come di dovere a chi è superiore è un peccato di superbia. Quindi il primo peccato dell’angelo non può essere altro che la superbia» (ibidem). Cioè, la superbia è la caratteristica del peccato angelico, il peccato dei demoni, i quali non vogliono assoggettarsi alla regola di chi gli è superiore, cioè alla regola che Dio ha posto nelle cose. Poi vedremo in modo più concreto, ma intanto il discorso fila.

Il peccato proprio dell’angelo è essenzialmente un peccato di superbia e non può essere un peccato legato a delle dimensioni che non sono confacenti alla sua propria natura. Se è chiaro il peccato di superbia, si comprende perché ci sia anche l’invidia, ma in questo ordine: non è la superbia che nasce dall’invidia, ma è l’invidia che nasce dalla superbia dell’angelo. Infatti san Tommaso spiega che «l’invidioso prova dispiacere per il bene altrui, perché lo giudica un impedimento al bene proprio. D’altra parte, il bene altrui non poteva essere ritenuto un impedimento al bene desiderato dall’angelo cattivo, se non in quanto l’angelo cattivo desiderava un’eccellenza singolare, che viene a cessare ove ci sia un altro dotato della medesima eccellenza» (ibidem). Cioè, in sostanza, l’angelo vuole per sé un’eccellenza singolare, un’eccellenza che nessun altro può avere. E dunque vedere il bene dell’altro viene considerato come una minaccia verso il proprio bene, ossia verso la propria eccellenza, come una concorrenza che può togliere in qualche modo il primato.

Vediamo come arriva al punto san Tommaso: «Quindi, nell’angelo prevaricatore, al peccato di superbia tenne dietro il peccato d’invidia, poiché provò dispiacere del bene concesso all’uomo» (ibidem). E questa è la prima ragione. Qui san Tommaso in qualche modo recupera un filone dei Padri che lega il peccato dell’angelo a una conoscenza che Dio gli ha voluto dare, per cui Dio ha deciso di rendere anche l’uomo partecipe della beatitudine. Seconda ragione: «[provò dispiacere] anche dell’eccellenza divina, secondo che Dio, contro la volontà del diavolo, si serve dell’uomo per la sua gloria» (ibidem).

Il demonio prova invidia dell’uomo che progredisce nella vita della grazia, in quanto procura in qualche modo la gloria di Dio. Cioè, l’uomo che si santifica dà gloria a Dio e questo, nell’angelo decaduto, è visto con odio, con invidia, perché è una minaccia alla sua propria eccellenza. E quindi si capisce perché i demoni fanno di tutto per insidiare l’uomo, perché non avanzi in quello che può dare gloria a Dio. Non sono invidiosi per il fatto che gli uomini possano avere dei beni materiali, non sono invidiosi per il fatto che l’uomo possa avere intelligenza: sono invidiosi del fatto che l’uomo, nella sua santificazione, dà gloria a Dio. Si capisce molto bene anche qual è l’attenzione che l’angelo presta nella tentazione. L’angelo può concedere moltissimo in questa vita agli uomini: non gliene importa niente; ma li colpisce dove invece possono dare gloria a Dio.

San Tommaso fa un ulteriore passaggio e cerca di vedere il contenuto di questa superbia. Per un’analogia con la tentazione nostra, cioè come il demonio ha tentato noi, si può dedurre il contenuto del peccato di superbia del demonio e cioè il fatto di voler essere come Dio. Il demonio tenta i progenitori dicendogli appunto «voi sarete come Dio», in un certo modo: cioè, sarete come Dio, ma non secondo l’ordine stabilito da Dio. Questa tentazione che il demonio “trasferisce” sull’umanità è stata la sua propria caduta.

San Tommaso, nell’articolo 3, che si intitola “Se il demonio abbia desiderato di essere come Dio”, fa subito una precisazione, ossia: il demonio non è stupido; non essendo stupido e non essendo soggetto a quelle passioni che noi abbiamo e che spesso ci rendono molto stupidi, non pensava di essere come Dio secondo un’uguaglianza, un’uguaglianza di natura: «Con la sua intelligenza naturale capiva che questa era una cosa assurda; tanto più che in lui il primo atto peccaminoso non era stato preceduto, come invece talora accade per noi uomini, da un abito o da una passione, che, offuscandone le potenze conoscitive, avesse potuto far sì che egli nel suo giudizio particolare scegliesse una cosa impossibile» (ST I, q. 63, a. 3). Il che, detto tra parentesi, significa che quando l’uomo cede alla passione diventa molto stupido, cioè pensa delle cose addirittura impossibili e, per poter fare delle cose impossibili, diventa maniacale in qualche modo. Non è questo il contenuto della superbia dell’angelo. Invece, il contenuto, dice san Tommaso, è «il desiderio di essere come Dio per una somiglianza» (ibidem).

La prima cosa da capire è che la somiglianza con Dio, in sé stessa, non è un male: Dio stesso chiama gli angeli e gli uomini a questa somiglianza con Sé; gliela dona anche, con la vita della grazia; e il contenuto della gloria, in cielo, è essere simili a Dio. Dunque, non è per aver desiderato questo che il demonio ha peccato, e non è perché si desidera questo che pecca l’uomo, evidentemente.

Dove sta allora il vero contenuto del peccato di superbia? Spiega san Tommaso: «Desiderò invece di essere simile a Dio, in quanto desiderò come fine ultimo quella beatitudine a cui poteva giungere con le proprie forze naturali, distogliendo il suo desiderio dalla beatitudine soprannaturale che si ottiene mediante la grazia di Dio» (ibidem). Questa è la prima ipotesi, poi vedremo la seconda.

Cosa “fa” Dio? Dio ha nella propria natura, in Sé stesso, il suo fine: non ha un altro fine, non esiste un fine più elevato di Dio. Per tutto ciò che è creato, per tutte le creature questo non va: non abbiamo in noi stessi il nostro fine, abbiamo il nostro fine in altro, in Dio. Ora, cosa ha fatto il demonio? Secondo questa prima ipotesi, il demonio ha voluto essere simile a Dio ponendo in sé stesso il proprio fine. E come ha fatto? In sostanza, rifiutando la beatitudine soprannaturale per rimanere nelle sue forze naturali, nella sua natura; cioè ha rifiutato di essere sopraelevato, ha rifiutato di avere un fine più alto di sé stesso.

Seconda ipotesi. Il demonio ha peccato perché «se desiderò come suo ultimo fine la somiglianza che proviene dalla grazia, la volle ottenere con le forze della propria natura e non mediante l’aiuto di Dio, conformemente alla disposizione divina» (ibidem). Cioè, pur accettando di essere sopraelevato, lo ha voluto fare con le proprie forze, ha voluto essere simile a Dio, ma senza di Lui, senza l’aiuto della grazia, ma esclusivamente con le proprie forze.

Sono due ipotesi che comunque hanno in comune il fatto che il demonio abbia voluto chiudersi in sé stesso, nelle proprie forze; si è fatto simile a Dio, nel senso che ha voluto essere lui stesso il proprio fine. E ha voluto essere lui stesso, in qualche modo, in base alla seconda ipotesi, il mezzo per arrivare a questo fine, cioè con le forze date dalle facoltà della propria natura.

Alcuni autori commentano questo testo di san Tommaso e riassumono a mio avviso in modo molto centrato il peccato di superbia del demonio, come un rifiuto di entrare nella prova della fede. Perché? Perché essere elevato all’ordine soprannaturale vuol dire fidarsi di Dio, fidarsi della grazia di Dio, credere ciò che non si vede, quindi entrare nell’oscurità della fede; entrare nell’oscurità della fede significa in qualche modo lasciare le proprie forze, il nostro dominio, per abbandonarsi in Dio, il quale è il solo che può realizzare il nostro raggiungimento di questo fine che è più elevato della nostra natura. In sostanza, il demonio non si è fidato di Dio, si è fidato solo di sé stesso. Sta qui la sua superbia: si è ribellato all’ordine posto da Dio, cioè essere elevato al di sopra della propria natura per raggiungere quel fine che non è in noi stessi, ma è in Dio.

Allora, vediamo qui un aspetto fondamentale della tentazione demoniaca, anche nei confronti dell’uomo. Capire queste cose non è pura speculazione, ma ci aiuta a capire una dinamica che il demonio mette in atto con noi, cioè quella di rinchiuderci in un naturalismo, secondo cui non c’è un fine sopraelevato; quindi, rinnegando il fine soprannaturale della vita e tutti i mezzi della grazia, l’uomo basta a sé stesso, raggiunge la propria perfezione nella propria natura. Quanti movimenti hanno questo sottofondo, anche dichiarato! Oppure, e abbiamo visto come sono collegate le due cose, c’è l’idea di raggiungere la propria beatitudine con le proprie forze, quindi senza accettare che Dio venga in nostro soccorso, che Dio ci dia i mezzi e la grazia per raggiungere il fine, ma in qualche modo ci si avvinghia al proprio modo di pensare, al proprio modo di vedere, alle proprie capacità e alla propria forza. Ecco perché la figliolanza, nel suo aspetto più profondo che è l’abbandono in Dio, è l’elemento chiave che sconfigge la tentazione del demonio, che appunto ha questa caratteristica.

Un’ultima questione da vedere – ce ne sarebbero altre, ma la quæstio è molto lunga, perciò sintetizziamo – è quella posta all’articolo 6, che si domanda quando l’angelo sia caduto. In sostanza, se sia passato del tempo tra la creazione e la caduta dell’angelo. Ciò ha un collegamento sia in riferimento alla questione se gli angeli siano stati creati in grazia, e abbiamo visto cosa dice san Tommaso; sia alla questione del merito, cioè che l’angelo ha dovuto meritare la gloria, con la grazia ricevuta gratuitamente (ricordiamo che lo ha fatto con un unico atto meritorio). Ora, in questo articolo, san Tommaso richiama due ipotesi. La prima ipotesi, che lui ritiene più probabile, più conforme all’insegnamento dei Padri, è che «il diavolo peccò subito dopo il primo istante della sua creazione» (ST I, q. 63, a. 6). E ciò è parallelo alla questione del merito, evidentemente, perché gli angeli che hanno meritato sono quelli che hanno superato la prova, che hanno compiuto un atto meritorio, un atto perfetto meritorio, unico; e in quel momento altri angeli hanno compiuto un atto opposto, hanno peccato. E san Tommaso dice che è più probabile che ciò sia avvenuto nel primo istante dopo la sua creazione.

Invece la seconda ipotesi è quella legata a chi invece sostiene che l’angelo non sia stato creato in grazia, che sarebbe sopraggiunta in un secondo momento: ipotesi che Tommaso non condanna, ma che ritiene meno probabile, in ragione della natura angelica. Chi in qualche modo sposa questa ipotesi dice che, in questo caso, nulla impedisce che sia trascorso un certo tempo tra la creazione e la caduta. Dunque, due ipotesi accettabili, ma san Tommaso propende per la prima, che è legata al fatto che l’angelo è stato creato in grazia e subito dopo la sua creazione abbia o meritato (come gli angeli buoni) o peccato.

La prossima volta vedremo un’altra questione importante, legata alla caduta degli angeli, ossia la pena degli angeli decaduti, dei demoni.



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