Il Papa: "No a un'economia che uccide"
Il discorso più lungo della (ancora breve) storia del suo pontificato, Papa Francesco lo ha pronunciato al II incontro dei Movimenti Popolari, in Bolivia. Il Papa è tornato a condannare questa "economia che uccide", le due forme di nuovo colonialismo: il dominio mondiale dei poteri forti della finanza e le «colonizzazioni ideologiche».
Il 10 luglio 2015 Papa Francesco ha lasciato la Bolivia, arrivando nella notte (italiana) in Paraguay. L’ultimo discorso in Bolivia, primo della cerimonia di congedo è stato pronunciato al carcere di Santa Cruz – Palmasola. Non si è però ancora spenta l’eco dei due discorsi rivolti rispettivamente ai sacerdoti e religiosi boliviani e al II Incontro mondiale dei movimenti popolari nella serata del 9 luglio. Nel primo, il Papa ha invitato i sacerdoti o i vescovi a non essere «funzionari di Dio» o «capitani» arroganti ma a commuoversi di fronte al grido di chi soffre, portandogli l’amore di Gesù e non le ricette delle ideologie. Nel secondo – il più lungo discorso finora pronunciato da Papa Francesco, quasi una piccola enciclica – Francesco ha denunciato l’«economia che uccide» e le due forme di nuovo colonialismo che minacciano i popoli: il dominio mondiale dei poteri forti della finanza e le «colonizzazioni ideologiche» imposte con metodi dittatoriali che aggrediscono la persona e la famiglia. Nel discorso il Papa ha invitato i «movimenti popolari» a tenersi lontani dalle ideologie, il cui padre ultimo – ha detto – è il Diavolo, e a ricordarsi anche delle persecuzioni dei cristiani nel mondo, che per la prima volta ha definito «una sorta di genocidio».
Ai carcerati di Palmasola il Pontefice, presentandosi come «un uomo perdonato», ha detto che «il dolore non è in grado di spegnere la speranza nel profondo del cuore, e la vita continua a germogliare con forza in circostanze avverse». Possiamo perdere la dignità «in molti modi e forme. Ma Gesù è un ostinato in questo: ha dato la vita per questo, per restituirci l’identità perduta, per rivestirci con tutta la sua forza di dignità». Ai detenuti il Papa ha raccomandato la preghiera, che «preserva dalla disperazione e ci stimola a continuare a camminare. Una rete che sostiene la vita, la vostra vita e quella dei vostri famigliari» Alle istituzioni Francesco chiede di ricordare che «la reclusione non è lo stesso di esclusione: che rimanga chiaro questo! Perché la reclusione è parte di un processo di reinserimento nella società», che non è pienamente perseguito se prevalgono «il sovraffollamento, la lentezza della giustizia, la mancanza di terapie occupazionali e di politiche riabilitative, la violenza, le carenze di strutture, di possibilità di studio universitario…».
Peraltro, la violenza nelle carceri non è imputabile alle sole istituzioni. «Il diavolo cerca lo scontro, cerca la rivalità, cerca la divisione, cerca le fazioni. Non fate il suo gioco!», ha implorato il Pontefice. E ai dirigenti e agli agenti della Polizia penitenziaria il Papa ha raccomandato di essere orgogliosi del «servizio pubblico fondamentale» che prestano, nello stesso tempo evitando «una logica di buoni e cattivi per passare a una logica centrata sull’aiutare la persona. E questa logica di aiutare la persona salverà voi da ogni tipo di corruzione e creerà condizioni migliori per tutti».
Nel discorso ai sacerdoti e religiosi il Papa aveva preso spunto dall’episodio evangelico di Bartimeo, il mendicante cieco, che vede passare Gesù è grida. Qual è la reazione dei discepoli di fronte a questo grido? Qual è la nostra? Il Pontefice ha distinto tre reazioni. La prima è l’indifferenza di chi ha «un cuore blindato, chiuso, ha perso la capacità di stupirsi e quindi la possibilità di cambiare. Quante persone che seguono Gesù corrono questo pericolo!». Magari pensano di essere persone profondamente spirituali, ma la loro è una «spiritualità dello zapping»: «vanno dietro all’ultima novità, all’ultimo best seller, ma non riescono ad avere un contatto, a relazionarsi, a farsi coinvolgere».
La seconda reazione di fronte a Bartimeo è quella altezzosa di chi si sente superiore al mendicante e gli ingiunge di non disturbare: «Sono i vescovi, i sacerdoti, le suore, il Papa … con il dito così». «È l'atteggiamento di coloro che di fronte al popolo di Dio, stanno continuamente a rimproverarlo, a brontolare, a dirgli di tacere. Dategli una carezza per favore, ascoltatelo, ditegli che Gesù gli vuole bene … “Ma non si può fare, signora, cos'ha questo bambino che piange mentre io predico?”. Come se il pianto di un bambino non fosse una sublime predica!». Il Papa ci vede «il dramma della coscienza isolata, di coloro che pensano che la vita di Gesù è solo per quelli che si credono adatti, ma in fondo hanno un profondo disprezzo per il popolo fedele di Dio». Così anche vescovi e sacerdoti finiscono per presentarsi come i soli «“autorizzati”, una “casta di diversi” che lentamente si separa, differenziandosi dal suo popolo. Hanno fatto dell’identità una questione di superiorità»: «non sono più pastori, ma sono capitani» chiusi in circoli autoreferenziali e lontani dalla gente.
Infine, c’è la reazione di Gesù, che «si ferma di fronte al grido di una persona e si impegna con lui. Mette radici nella sua vita. E invece di farlo tacere, gli chiede: Che cosa posso fare per te?». «La compassione non è zapping, non è silenziare il dolore, al contrario, è la logica propria dell’amore. È la logica che non si è centrata sulla paura, ma sulla libertà che nasce dall'amore e mette il bene dell’altro sopra ogni cosa». Attenzione, però: questo avvicinamento all’altro avviene in nome della fede, non dell’ideologia. «Non siamo testimoni di un’ideologia, di una ricetta, di un modo di fare teologia» ma «dell’amore risanante e misericordioso di Gesù».
Al secondo Incontro mondiale dei movimenti popolari – il primo si era svolto a Roma, e anche lì il Papa era intervenuto – Francesco ha ribadito il tema del suo discorso romano: il diritto alle tre T, terra, tetto e lavoro («trabajo» in lingua spagnola), ma fornendo importanti precisazioni. Il presidente boliviano Evo Morales ha cercato di appropriarsi dell’incontro, ma – come spiegato su queste colonne da Marinellys Tremamunno – il mondo dei «movimenti popolari» è un insieme eterogeneo, tra cui non mancano contestatori delle derive autoritarie di Morales.
Che cosa apprezza il Papa dei «movimenti popolari»? Lo aveva detto a Roma e lo ha ripetuto a La Paz: la «prossimità», cioè l’occuparsi di piccole cause concrete – dai problemi dei «cartoneros», che vivono della raccolta del cartone, a quelli dei quartieri e delle periferie urbane – piuttosto che di grandi progetti ideologici. Alla fine, se riescono a sfuggire alla presa delle ideologie – il che peraltro non va dato per scontato –, sono proprio questi movimenti concreti, come «poeti sociali» ha detto Francesco, a poter mandare in crisi gli ingranaggi di dominio dei poteri forti internazionali.
Questa contestazione del dominio da parte dei «movimenti popolari» si esprime in una richiesta di «cambiamento». Sì, afferma il Papa, «abbiamo bisogno di un cambiamento». Le cose «non stanno andando bene» «in un mondo dove ci sono tanti contadini senza terra, molte famiglie senza casa, molti lavoratori senza diritti, molte persone ferite nella loro dignità», dove «esplodono molte guerre insensate e la violenza fratricida aumenta nei nostri quartieri», dove «il suolo, l'acqua, l'aria e tutti gli esseri della creazione sono sotto costante minaccia». Tuttavia anche «cambiamento» può diventare uno slogan ideologico. «Cambiamento» sì: ma quale? Cambiamento, anzitutto, della logica e del cuore. Un vero cambiamento sostituisce alla «logica del profitto» quella della redenzione e del dono, sostituisce alla «globalizzazione dell’esclusione e dell’indifferenza» una «globalizzazione della speranza», sostituisce alla «tristezza individualista che rende schiavi» e all’«ambizione sfrenata di denaro» la passione per il «servizio al bene comune».
Evocando – lo ha fatto spesso in questo viaggio – l’enciclica Laudato si’ e il rischio di «danni forse irreversibili all’ecosistema», Francesco ha parlato ancora della «sottile dittatura» dei poteri forti della tecnocrazia, ma ha invitato a evitare «un certo eccesso diagnostico che a volte ci porta a un pessimismo parolaio o a crogiolarci nel negativo» o ci convince che «non si può fare nulla, ma solo prendersi cura di sé e della piccola cerchia della famiglia e degli affetti». Ma questa convinzione sottilmente indotta dai poteri forti è falsa. Si può sempre «seminare» il cambiamento, anche se forse altri lo «vedranno fiorire». Ma «il cambiamento concepito non come qualcosa che un giorno arriverà perché si è imposta questa o quella scelta politica o perché si è instaurata questa o quella struttura sociale. Sappiamo dolorosamente che un cambiamento di strutture che non sia accompagnato da una sincera conversione degli atteggiamenti e del cuore finisce alla lunga o alla corta per burocratizzarsi, corrompersi e soccombere». Non il cambiamento ideologico, ma quello dell’amore e del Vangelo che si commuove quando vede «non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante».
La «prossimità» e l’impegno per cause forse piccole ma concrete permette di «esercitare il mandato dell’amore non partendo da idee o concetti, bensì partendo dal genuino incontro tra persone, perché non si amano né i concetti né le idee; si amano le persone». Ai «movimenti popolari» il Papa chiede: «non perdete mai il vostro attaccamento alla prossimità, perché il padre della menzogna sa usurpare nobili parole, promuovere mode intellettuali e adottare pose ideologiche». Contro il diavolo, che è padre delle ideologie, «teniamo sempre nel cuore la Vergine Maria, umile ragazza di un piccolo villaggio sperduto nella periferia di un grande impero, una madre senza tetto che seppe trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù con un po’ di panni e una montagna di tenerezza».
Ma, in concreto, qual è il contenuto del vero cambiamento? Francesco precisa: «Non aspettatevi da questo Papa una ricetta. Né il Papa né la Chiesa hanno il monopolio della interpretazione della realtà sociale né la proposta di soluzioni ai problemi contemporanei. Oserei dire che non esiste una ricetta. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nel quadro di popoli che camminano cercando la propria strada e rispettando i valori che Dio ha posto nel cuore». Tuttavia, il Papa indica tre principi generali.
Il primo è quello di «mettere l’economia al servizio dei popoli» e non i popoli al servizio dell’economia, rifiutando l’economia del «denaro [che] domina invece di servire». «Questa economia uccide». La parola «economia» indica la «buona amministrazione della casa comune», affinché tutti possano aspirare non solo a sopravvivere ma a «vivere bene». «Questa economia è non solo auspicabile e necessaria, ma anche possibile. Non è un’utopia o una fantasia. È una prospettiva estremamente realistica. Possiamo farlo». Nel mondo le risorse ci sono. Si tratta di non «accelerare in modo irresponsabile i ritmi della produzione» e del consumo, e di pensare all’«equa distribuzione» che «non è semplice filantropia. È un dovere morale». Il Papa ripete che la «destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. È una realtà antecedente alla proprietà privata», che è un diritto ma «dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli».
Il secondo principio è il diritto dei popoli a «essere artefici del proprio destino». Certo, oggi i Paesi poveri sono formalmente indipendenti, e la «Patria grande» latino-americana è il risultato di tante lotte nazionali per l’indipendenza. Ma questi Paesi sono anche vittima di «nuove forme di colonialismo». «Il nuovo colonialismo adotta facce diverse. A volte, è il potere anonimo dell’idolo denaro: corporazioni, mutuanti, alcuni trattati chiamati “di libero commercio” e l’imposizione di mezzi di “austerità” che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri». Ma non c’è solo il colonialismo economico. C’è anche il «colonialismo ideologico» che impone l’«uniformità culturale» di nuove ideologie ostili alla persona e alla famiglia.
Qualcuno potrebbe obiettare, nota Francesco, che «quando il Papa parla di colonialismo dimentica certe azioni della Chiesa». Il Papa ricorda le iniziative di san Giovanni Paolo II e dei vescovi latino-americani per la purificazione della memoria e afferma «a malincuore: si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori». E aggiunge: «vorrei essere molto chiaro, come lo era san Giovanni Paolo II: chiedo umilmente perdono, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America». «Cosiddetta» conquista, però, perché molti uomini di Chiesa vennero non per conquistare ma per evangelizzare e anche i «non credenti» dovrebbero «ricordarsi di molti vescovi, sacerdoti e laici che si sono opposti alla logica della spada con la forza della croce: dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia». Così come tutti devono riconoscere che oggi i cristiani non sono persecutori ma perseguitati, «in Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta di genocidio in corso che deve fermarsi».
Il terzo principio è quello dell’enciclica Laudato si’: «difendere la Madre Terra. La casa comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave». «Non si può consentire che certi interessi – che sono globali, ma non universali – si impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato». Ma anche l’ecologia non può diventare una grande causa ideologica. Ripartire dai problemi concreti, dalle piccole cose, dalla «prossimità» è il suggerimento del Papa per difendere la Terra e la persona.