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L'UDIENZA DEL PAPA

Il Papa: «Andrò a Lesbo per sostenere profughi»

Il Papa, in un "appello" alla fine dell'udienza del mercoledì ha ricordato che sabato sarà a Lesbo, «per esprimere vicinanza e solidarietà sia ai profughi sia ai cittadini di Lesbo e a tutto il popolo greco, tanto generoso nella accoglienza. Chiedo per favore», ha aggiunto, «di accompagnarmi con la preghiera alla Vergine Maria».

Ecclesia 13_04_2016
Papa Francesco

Il Papa, in un "appello" alla fine dell'udienza di mercoledì 13 aprile ha ricordato che sabato sarà a Lesbo, «per esprimere vicinanza e solidarietà sia ai profughi sia ai cittadini di Lesbo e a tutto il popolo greco, tanto generoso nella accoglienza. Chiedo per favore - ha aggiunto - di accompagnarmi con la preghiera, invocando la luce e la forza dello Spirito Santo e la materna intercessione della Vergine Maria». 

«Sabato prossimo», ha detto il Papa prima di salutare i gruppi italiani in udienza generale, « mi recherò nell'isola di Lesbo, dove nei mesi scorsi sono transitati moltissimi profughi. Andrò insieme con i miei fratelli il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e l'arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Hieronimus, per esprimere vicinanza e solidarietà sia ai profughi, sia ai cittadini di Lesbo e a tutto il popolo greco tanto generoso nella accoglienza. Chiedo per favore di accompagnarmi con la preghiera, invocando la luce e la forza dello Spirito Santo e la materna intercessione della Vergine Maria».

Nel suo discorso all'udienza,  papa Francesco ha poi proseguito il ciclo di catechesi sul tema della misericordia. Si è soffermato in particolare su un versetto del profeta Osea - «Misericordia io voglio e non sacrificio», che Gesù cita in una discussione con i farisei distinguendo fra una religiosità puramente esteriore e una capace di agire nel mondo com vera misericordia. Il Papa è partito dal Vangelo della chiamata di Matteo, un esattore delle imposte e quindi per la mentalità del tempo un pubblico peccatore, che Gesù invita a cena e converte in suo discepolo. A proposito proprio di Matteo «sorge una discussione tra i farisei e i discepoli di Gesù per il fatto che questi condividono la mensa con i pubblicani e i peccatori. “Ma tu non puoi andare a casa di questa gente!”, dicevano loro. Gesù, infatti, non li allontana, anzi frequenta le loro case e siede accanto a loro; questo significa che anche loro possono diventare suoi discepoli». 

Occorre considerare, ha aggiunto il Papa, che «essere cristiani non ci rende impeccabili. Come il pubblicano Matteo, ognuno di noi si affida alla grazia del Signore nonostante i propri peccati. Tutti siamo peccatori, tutti abbiamo peccati. Chiamando Matteo, Gesù mostra ai peccatori che non guarda al loro passato, alla condizione sociale, alle convenzioni esteriori, ma piuttosto apre loro un futuro nuovo». Il Papa cita un detto popolare: «Non c’è santo senza passato e non c’è peccatore senza futuro». E commenta: «La Chiesa non è una comunità di perfetti, ma di discepoli in cammino, che seguono il Signore perché si riconoscono peccatori e bisognosi del suo perdono». Questo atteggiamento della Chiesa spesso «non è compreso da chi ha la presunzione di credersi “giusto” e di credersi migliore degli altri. Superbia e orgoglio non permettono di riconoscersi bisognosi di salvezza, anzi, impediscono di vedere il volto misericordioso di Dio e di agire con misericordia. Esse sono un muro. La superbia e l’orgoglio sono un muro che impediscono il rapporto con Dio». 

Al contrario, «la missione di Gesù è proprio questa: venire in cerca di ciascuno di noi, per sanare le nostre ferite e chiamarci a seguirlo con amore». A questo si riferiscono le parole del Signore: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati». «Gesù si presenta come un buon medico! Egli annuncia il Regno di Dio, e i segni della sua venuta sono evidenti: Egli risana dalle malattie, libera dalla paura, dalla morte e dal demonio. Innanzi a Gesù nessun peccatore va escluso – nessun peccatore va escluso! - perché il potere risanante di Dio non conosce infermità che non possano essere curate».

Chiamando i peccatori come Matteo alla sua mensa, Gesù non nega la realtà del loro peccato ma «li risana ristabilendoli in quella vocazione che essi credevano perduta e che i farisei hanno dimenticato: quella di invitati al banchetto di Dio». Questo è il vero senso della profezia messianica di Isaia: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. E si dirà in quel giorno: Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza».

Il gesto del sedere a tavola insieme era molto importante nel mondo ebraico, e sedersi a tavola con Gesù «significa essere da Lui trasformati e salvati». Nella comunità cristiana oggi «la mensa di Gesù è duplice: c’è la mensa della Parola e c’è la mensa dell’Eucaristia» e «sono questi i farmaci con cui il Medico Divino ci risana e ci nutre». Con il primo farmaco, la Parola, il Signore «si rivela e ci invita a un dialogo fra amici. Gesù non aveva paura di dialogare con i peccatori, i pubblicani, le prostitute… No, lui non aveva paura: amava tutti!». La sua Parola, però, non scusa né cancella il peccato: ma «penetra in noi e, come un bisturi, opera in profondità per liberarci dal male che si annida nella nostra vita. A volte questa Parola è dolorosa perché incide sulle ipocrisie, smaschera le false scusanti, mette a nudo le verità nascoste; ma nello stesso tempo illumina e purifica, dà forza e speranza, è un ricostituente prezioso nel nostro cammino di fede».

Il secondo farmaco, l’Eucaristia, «ci nutre della stessa vita di Gesù e, come un potentissimo rimedio, in modo misterioso rinnova continuamente la grazia del nostro Battesimo. Accostandoci all’Eucaristia noi ci nutriamo del Corpo e Sangue di Gesù, eppure, venendo in noi, è Gesù che ci unisce al suo Corpo!». Alla fine della discussione su Matteo, Gesù cita ai farisei il brano del profeta Osea: «Andate e imparate che cosa vuol dire: misericordia io voglio e non sacrificio». Occorre leggere questa citazione nel contesto del tempo di Osea. «Rivolgendosi al popolo di Israele il profeta lo rimproverava perché le preghiere che innalzava erano parole vuote e incoerenti. Nonostante l’alleanza di Dio e la misericordia, il popolo viveva spesso con una religiosità “di facciata”, senza vivere in profondità il comando del Signore». Ecco dunque perché il profeta insiste: «"Misericordia io voglio”, cioè la lealtà di un cuore che riconosce i propri peccati, che si ravvede e torna ad essere fedele all’alleanza con Dio». «E non sacrificio»: «senza un cuore pentito ogni azione religiosa è inefficace!».

Gesù, dal canto suo, «applica questa frase profetica anche alle relazioni umane: quei farisei erano molto religiosi nella forma, ma non erano disposti a condividere la tavola con i pubblicani e i peccatori; non riconoscevano la possibilità di un ravvedimento e perciò di una guarigione; non mettevano al primo posto la misericordia: pur essendo fedeli custodi della Legge, dimostravano di non conoscere il cuore di Dio!». «È come - commenta il Papa - se a te regalassero un pacchetto con dentro un dono e tu, invece di andare a cercare il dono, guardi soltanto la carta nel quale è incartato: soltanto le apparenze, la forma, e non il nocciolo della grazia, del dono che viene dato!».

«Impariamo - ha concluso il Papa - a guardare con misericordia» le persone che ci stanno vicino e «a riconoscere in ognuno di loro un nostro commensale. Siamo tutti discepoli che hanno bisogno di sperimentare e vivere la parola consolatrice di Gesù. Abbiamo tutti bisogno di nutrirci della misericordia di Dio, perché è da questa fonte che scaturisce la nostra salvezza».