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L'INCONTRO

Il Papa ai preti: «quando litigate, il diavolo festeggia»

Nell'incontro a porte chiuse con i sacerdoti a Caserta, Papa Francesco ha affrontato i temi della spiritualità sacerdotale, della religiosità popolare, delle derive «eretiche», della preghiera in stile new age della differenza fra missione e proselitismo e del rapporto fra dialogo e identità. 

Ecclesia 28_07_2014
Papa Francesco

Domenica 27 luglio la Santa Sede ha diffuso la trascrizione integrale del dialogo tra Papa Francesco e i sacerdoti della Diocesi di Caserta, avvenuto sabato a porte chiuse nella Cappella Palatina della Reggia. Un dialogo lungo, dove il Pontefice ha affrontato temi complessi e delicati, tra cui quelli della spiritualità sacerdotale, della religiosità popolare, delle derive «eretiche», un parola, ha detto, che non dobbiamo avere paura di pronunciare, della preghiera in stile new age, della differenza fra missione e proselitismo e del rapporto fra dialogo e identità. Il Papa ha anzitutto confermato, come il nostro giornale aveva anticipato, che la visita è stata occasionata dal desiderio di evitare facili critiche per l’incontro in programma lunedì a Caserta con il suo amico pastore protestante pentecostale casertano, Giovanni Traettino, a due giorni dalla festa patronale di sant’Anna, che poteva sembrare uno sgarbo ai cattolici locali. «Il giorno dopo - ha detto il Papa - sui giornali ci sarà: "nella festa patronale di Caserta il Papa è andato dai protestanti”. Bel titolo, eh? E così abbiamo sistemato la cosa, un po’ in fretta».

Curiosamente, la prima domanda, del vicario generale della Diocesi, ha cercato di coinvolgere il Papa in questioni di confini territoriali fra le diocesi di Caserta, Capua e Aversa. Il Pontefice ha risposto che le discordie fra diocesi sono «un segno brutto. È brutto quando i Vescovi sparlano uno dell’altro, o fanno cordate», magari per questioni abbastanza futili: «questo non è di Dio». «È qui dove il diavolo festeggia! È lui che guadagna». Una seconda domanda ha avuto come tema il rilancio da parte di Papa Francesco e dei suoi predecessori della religiosità popolare: non c’è il rischio, ha chiesto un parroco, che questa si manifesti in forme sentimentali o perfino eterodosse? «Si sente dire», ha risposto il Pontefice, «che questo è un tempo dove la religiosità è andata giù, ma io non credo tanto. Perché ci sono queste correnti, queste scuole di religiosità intimiste, tipo gli gnostici, che fanno una pastorale simile a una preghiera pre-cristiana, una preghiera pre-biblica, una preghiera gnostica, e lo gnosticismo è entrato nella Chiesa […] ma è un po’ sulla strada della New Age. C’è religiosità, sì, ma una religiosità pagana, o addirittura eretica; non dobbiamo avere paura di pronunciare questa parola, perché lo gnosticismo è un’eresia, è stata la prima eresia della Chiesa».

Non bisogna però confondere, ha insistito il Papa, derive gnostiche e new age con il recupero di quel «tesoro» che è la religiosità popolare, già proposto dal venerabile Paolo VI (1897-1978) nell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, documento carissimo a Francesco, che lo ha definito «di un’attualità enorme». In quel testo, il venerabile Paolo VI «descrive la pietà popolare, affermando che essa alcune volte dev’essere anche evangelizzata. Sì, perché come ogni pietà c’è il rischio di andare un po’ da una parte, un po’ dall’altra o non avere un’espressione di fede forte. Ma la pietà che ha la gente, la pietà che entra nel cuore con il Battesimo è una forza enorme». Ci possono essere errori ed esagerazioni, ma «la religiosità popolare è uno strumento di evangelizzazione», soprattutto quando è accompagnata, è un tema su cui il Papa ritorna sempre, «dal sacramento della confessione». «Nei Santuari ad esempio si vedono miracoli! Ogni 27 luglio andavo al Santuario di San Pantaleo, a Buenos Aires, e confessavo la mattina. Ma, io tornavo nuovo da quell’esperienza, tornavo vergognato della santità che trovavo nella gente semplice, peccatrice ma santa, perché diceva i propri peccati e poi raccontava come viveva». «I confessionali dei Santuari sono un posto di rinnovamento per noi preti e Vescovi; sono un corso di aggiornamento spirituale, a motivo del contatto con la pietà popolare».

Un sacerdote ha lodato il Papa per la sua «creatività», che scuote e attira le persone lontane dalla Chiesa, rilevando però che per i sacerdoti non è facile imitarla. «Creatività», ha risposto il Papa, è «una parola che mi piace tanto», perché è la «parola divina» di Dio creatore. E Dio, che ci ha creati a sua immagine e somiglianza, ci chiede di essere anche noi, se non creatori, «creativi». Ma «come si può trovare questa creatività? Prima di tutto, e questa è la condizione se noi vogliamo essere creativi nello Spirito, cioè nello Spirito del Signore Gesù, non c’è altra strada che la preghiera. Un Vescovo che non prega, un prete che non prega ha chiuso la porta, ha chiuso la strada della creatività. È proprio nella preghiera, quando lo Spirito ti fa sentire una cosa, viene il diavolo e te ne fa sentire un’altra; ma nella preghiera è la condizione per andare avanti. Anche se la preghiera tante volte può sembrare noiosa. La preghiera è tanto importante». 

Il Papa non si stanca di ricordarlo ai vescovi e ai sacerdoti: «Se noi non preghiamo, saremo forse buoni imprenditori pastorali e spirituali, ma la Chiesa senza preghiera diviene una Ong». Citando l’esempio del beato Antonio Rosmini (1797-1855), che nella Chiesa «è stato proprio un critico creativo, perché pregava», Papa Francesco ha spiegato che la creatività cattolica non è «la creatività un po’ alla sans façon e rivoluzionaria, perché oggi è di moda fare il rivoluzionario; no questa non è dello Spirito». La vera creatività «ha una dimensione antropologica di trascendenza, perché mediante la preghiera tu ti apri alla trascendenza, a Dio». E questa trascendenza spinge a evangelizzare: «non bisogna essere una Chiesa chiusa in sé, che si guarda l’ombelico, una Chiesa autoreferenziale, che guarda se stessa e non è capace di trascendere». «Uscire da sé non è un’avventura, è un cammino».

Con implicito riferimento alla sua a visita al un pastore protestante pentecostale casertano, il Papa ha affrontato il tema delicatissimo del dialogo ecumenico e della distinzione fra missione e proselitismo. Ha raccontato la storia di un sacerdote argentino maltrattato e insultato dalla direttrice di una scuola, che era passata al protestantesimo, con queste parole: «Voi ci avete abbandonati, ci avete lasciati soli, e io che ho bisogno della Parola di Dio sono dovuta andare al culto protestante e mi sono fatta protestante». Il sacerdote rispose solo: «Signora, soltanto una parola: perdono. Perdonaci, perdonaci. Abbiamo abbandonato il gregge». Quel sacerdote, ha spiegato il Papa, «non andò sull’argomento di quale fosse la vera religione: in quel momento non si poteva fare questo». Ma alla fine la donna ha fatto entrare il sacerdote in casa, «ha aperto l’armadio e c’era l’immagine della Madonna: “Lei deve sapere che mai l’ho abbandonata. L’ho nascosta a causa del pastore, ma in casa c’è!”». Questa donna «continua ad andare al culto protestante», ma a modo suo si sta riconciliando con la Chiesa: quanto ai tempi e ai modi, «faccia il Signore Gesù».

L’argomento è evidentemente delicato. Dal venerabile Paolo VI in poi, anche la Chiesa cattolica, come gli studiosi accademici di ecumenismo facevano da anni, distingue fra il «proselitismo», un modo sbagliato di avvicinare chi appartiene ad altre religioni, con uno stile aggressivo e puntando a una rapida conversione, e la «missione», che parte invece da un dialogo rispettoso dell’identità altrui e avanza con il necessario rispetto e gradualità. C’è evidentemente il rischio che la critica del proselitismo, che Papa Francesco propone spesso, sia scambiata per critica della missione, e che il rispetto dell’identità altrui sia un pretesto per perdere l’identità propria. Un rischio serio, di cui il Papa sembra essere consapevole.  «Per dialogare sono necessarie due cose: la propria identità come punto di partenza e l’empatia con gli altri. Se io non sono sicuro della mia identità e vado a dialogare, finisco per barattare la mia fede. Non si può dialogare se non partendo dalla propria identità». Nello stesso tempo il dialogo presuppone l’«empatia» con chi non condivide la nostra fede e non va confuso con «l’apologetica». Il Papa non esclude l’apologetica, anzi ci dice che «alcune volte si deve fare» – non solo dunque si può ma «si deve» –, «quando ci vengono poste delle domande che richiedono una spiegazione». Il dialogo è però una cosa diversa dall’apologetica: c’è un tempo per l’uno e un tempo per l’altra.

Il dialogo è parte della missione, che appunto in quanto include il dialogo si differenzia dal proselitismo. Nello stesso tempo, il dialogo non è fine a se stesso e non «baratta» l’identità. Un dialogo «sicuro della propria identità non significa fare proselitismo. Il proselitismo è una trappola, che anche Gesù un po’ condanna, en passant, quando parla ai farisei e sadducei: “Voi che fate il giro del mondo per trovare un proselito e poi vi ricordate di quello …” Ma, è una trappola. E Papa Benedetto ha un’espressione tanto bella, l’ha fatta ad Aparecida ma credo che l’abbia ripetuta in altra parte: “La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione”. E cosa è l’attrazione? È questa empatia umana che poi viene guidata dallo Spirito Santo». La Chiesa che sceglie la missione e rifiuta la «trappola» del proselitismo non rinuncia affatto a «crescere», né rinuncia alla propria identità: ma lo fa con un suo stile, che parte dal dialogo e dall’empatia.

Un ultimo tema che il Papa ha affrontato è la «spiritualità del clero diocesano. Prete contemplativo, ma non come uno che è nella Certosa», «il monaco è un’altra cosa». Il sacerdote diocesano vive la sua spiritualità nel rapporto con la diocesi e con il vescovo. «Il rapporto con il vescovo è importante, è necessario. Un sacerdote diocesano non può essere staccato dal vescovo. “Ma, il vescovo non mi vuole bene, il vescovo qui, il vescovo là…”: Il vescovo potrà forse essere un uomo con cattivo carattere: ma è il tuo vescovo». Ed essere sacerdote diocesano significa anche avere un buon rapporto con i confratelli. «E qual è il nemico più grande di questi due rapporti? Le chiacchiere». Queste «non sono una novità post-conciliare…. Già San Paolo dovette affrontarle, ricordate la frase: “Io sono di Paolo, io sono di Apollo ……” Le chiacchere sono una realtà presente già all’inizio della Chiesa, perché il demonio non vuole che la Chiesa sia una madre feconda, unita, gioiosa». Le chiacchiere generano amarezza. Il Papa ha raccontato di un sacerdote che gli diceva: «“Ma, io vedo che tante volte noi siamo una Chiesa di arrabbiati, sempre arrabbiati l'uno contro l’altro; abbiamo sempre qualcosa per arrabbiarci”. Questo porta la tristezza e l’amarezza: non c’è la gioia. Quando troviamo in una Diocesi un sacerdote che vive così arrabbiato e con questa tensione, pensiamo: ma quest’uomo al mattino per colazione prende l’aceto. Poi, a pranzo, le verdure sott’aceto, e poi alla sera una bella spremuta di limone. Così la sua vita non va, perché è l’immagine di una Chiesa degli arrabbiati. Invece la gioia è il segno che va bene. Uno può arrabbiarsi: è anche sano arrabbiarsi una volta. Ma lo stato di arrabbiamento non è del Signore e porta alla tristezza e alla disunione». Alla fine, la gioia e la serenità, ha concluso il Pontefice, vengono sempre dalla preghiera. Sembra che i sacerdoti abbiano bisogno di tante cose, ed è vero. Ma hanno anzitutto bisogno di rimettere la preghiera al primo posto.