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LA VISITA

Il Papa a Seul invoca la pace e richiama i vescovi

Papa Francesco ha iniziato la visita in Corea del Sud, con lo sguardo rivolto alla Corea del Nord che lo ha «salutato» con un lancio di missili. Papa Francesco ha parlato della necessità della pace per il Paese già  messo alla prova dalla violenza e dalla persecuzione.

Ecclesia 15_08_2014
Papa Francesco all'arrivo a Seul

Papa Francesco ha iniziato il suo viaggio in Corea del Sud, con lo sguardo rivolto alla Corea del Nord, il Paese più anticristiano del mondo, che lo ha «salutato» con un lancio di missili nello spazio aereo sudcoreano, ma anche a problemi globali del mondo e della Chiesa. Forse tenendo conto di controversie recenti, ha proposto una forte rivalutazione del ruolo della diplomazia, che opera senza proclami, ha detto, ma spesso consegue risultati, e ha affermato che la memoria del passato per i cattolici da una parte è indispensabile per rimanere radicati nella verità, dall'altra deve essere integrata nella strada che la Chiesa nella storia sceglie per il presente, altrimenti può diventare perfino un «ostacolo al progresso spirituale».

Francesco ha iniziato salutando le autorità al Palazzo presidenziale di Seoul la sua visita in Corea, la «terra del calmo mattino», che però, ha ricordato, è stata «messa alla prova nel corso degli anni dalla violenza, dalla persecuzione e dalla guerra». Ma in queste gravi prove, ha aggiunto, i coreani non hanno perso la speranza e dalle distruzioni della guerra sono riemersi come una nazione grande e prospera. Il Papa ha ricordato i due scopi del suo viaggio, che «si completano a vicenda»: beatificare 124 martiri coreani morti per la fede fra il XVIII e il XIX secolo e partecipare alla VI Giornata asiatica della Gioventù. La cultura coreana, ha affermato il Pontefice, capisce bene che si onorino gli antenati. «Noi cattolici rendiamo onore agli antenati che hanno subito il martirio per la fede, perché sono stati pronti a donare la vita per la verità».

Un filo d'oro, la tradizione di un popolo, lega gli antenati - e tra questi i santi e i martiri - e i giovani, cui si tratta «di trasmettere l’eredità del passato e di applicarla alle sfide del tempo presente». Tutte le volte che i giovani si riuniscono, «siamo anche chiamati a riflettere sull’adeguatezza del modo di trasmettere i nostri valori alle future generazioni». Con le autorità il Papa ha voluto soprattutto riflettere su come ai giovani si possa trasmettere «il dono della pace. Questo appello ha un significato del tutto speciale qui in Corea, una terra che ha sofferto lungamente a causa della mancanza di pace». Quella della pace e della riconciliazione nella penisola coreana, ha detto il Papa, «è una causa che ci sta particolarmente a cuore perché influenza la stabilità dell’intera area e del mondo intero, stanco della guerra».

Francesco ha voluto insistere, parlando della Corea, ma alludendo anche ad altri scenari di crisi, sul ruolo della diplomazia, che talora oggi è ingiustamente criticata o sottovalutata. Invece «la diplomazia, come arte del possibile, è basata sulla ferma e perseverante convinzione che la pace può essere raggiunta mediante il dialogo e l’ascolto attento e discreto, piuttosto che attraverso reciproche recriminazioni, critiche inutili e dimostrazioni di forza». Certo, la Chiesa sa che «la pace non è semplicemente assenza di guerra, ma opera della giustizia». Una pace senza giustizia non è vera pace. Però «la giustizia, come virtù, fa appello alla tenacia della pazienza; essa non ci chiede di dimenticare le ingiustizie del passato, ma di superarle attraverso il perdono, la tolleranza e la cooperazione. Essa esige la volontà di discernere e di raggiungere obiettivi reciprocamente vantaggiosi», il che è precisamente il lavoro della diplomazia.

La ricca Corea è caratterizzata da forti disuguaglianze e da aree di povertà disperata. Il Papa ha chiesto che «sia data speciale attenzione ai poveri, a coloro che sono vulnerabili e a quelli che non hanno voce, non soltanto venendo incontro alle loro immediate necessità, ma pure per promuoverli nella loro crescita umana e spirituale. Nutro la speranza che la democrazia coreana continuerà a rafforzarsi e che questa nazione dimostrerà di primeggiare anche in quella “globalizzazione della solidarietà” che è oggi particolarmente necessaria». Le scuole cattoliche, fiorenti in Corea, hanno un ruolo speciale nell'educare alla solidarietà. «La Chiesa desidera contribuire all’educazione dei giovani, alla crescita di uno spirito di solidarietà verso i poveri e i disagiati e contribuire alla formazione di giovani generazioni di cittadini, pronti a offrire la saggezza e la lungimiranza ereditate dai loro antenati e nate dalla loro fede, per affrontare le grandi questioni politiche e sociali della nazione».

Incontrando i vescovi cattolici coreani, il Papa ha insistito sul nesso tra memoria e speranza, tornando sul tema di come debba essere intesa nella Chiesa la Tradizione. Voi, ha detto ai vescovi, «siete i discendenti dei martiri» e i custodi e testimoni della Tradizione» per i coreani. Questa custodia, ha affermato il Papa, è necessaria per rimanere «nella fedeltà» e nella verità. Ma nel contempo «la nostra memoria dei martiri e delle generazioni passate di cristiani deve essere realistica, non idealizzata o "trionfalistica". Guardare al passato senza ascoltare la chiamata di Dio alla conversione nel presente non ci aiuterà a proseguire il cammino; al contrario frenerà o addirittura arresterà il nostro progresso spirituale». Per un vescovo cattolico essere custode della memoria significa certo «ricordare e fare tesoro delle grazie del passato», ma anche «trarne le risorse spirituali per affrontare con lungimiranza e determinazione le speranze, le promesse e le sfide del futuro». 

In pratica questo significa essere insieme una Chiesa fedele e radicata nella verità e «una Chiesa missionaria, una Chiesa costantemente in uscita verso il mondo e in particolare verso le periferie della società contemporanea», senza dimenticare i poveri di tutti i tipi. Verso chi è povero di beni la missione, ha insistito il Pontefice, non può ridursi «alla sola dimensione assistenziale, dimenticando la necessità di ognuno di crescere come persona» e di ricevere il Vangelo. Ma è povero, se non di beni, di risposte ai grandi quesiti della vita anche chi vive immerso nella cultura «secolarizzata e materialistica». Potrà essere ricco e sazio, ma sarà povero di verità e di valori. I vescovi talora sono vittime, magari senza rendersene conto, della stessa cultura. «Sono tentati di adottare non solo efficaci modelli di gestione, programmazione e organizzazione tratti dal mondo degli affari, ma anche uno stile di vita e una mentalità guidati più da criteri mondani di successo e persino di potere che dai criteri enunciati da Gesù nel Vangelo». «Guai a noi», ha concluso il Papa, «se la Croce viene svuotata del suo potere di giudicare la saggezza di questo mondo». La cultura della secolarizzazione e del materialismo non dev'essere imitata ma giudicata, sulla base di una memoria e di una speranza che possono nascere solo dal Vangelo.