Il Pakistan blocca la legge mondiale sulla blasfemia
Svolta all'Onu, Islamabad cambia strategia. Intanto Paul Bhatti prende il posto del fratello assassinato Shabah al Ministero per le minoranze religiose.
Colpo di scena. Il Pakistan ha bloccato la campagna che, alla testa dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC), promuove alacremente da tempo presso le Nazioni Unite onde ottenere una legge internazionale contro il “vilipendio alla religione”. Vale a dire estendere il più possibile nel mondo la propria famigerata e luttuosa norma sulla “blasfemia” che di fatto serve solamente a difendere l’islam in ogni sua forma e manifestazione, comprese quelle estremistiche, a danno di chiunque altro.
La battaglia pakistana all’Onu iniziò già nel 1999, cioè ben prima dell’Undici Settembre, riuscendo da allora in poi a far approvare diverse risoluzioni con il consenso di Paesi del mondo islamico, del Terzo Mondo, di Russia e di Cina.
La più grave - nota un accurato dossier pubblicato di recente sul quotidiano la Padania - è quella del 12 maggio 2009, confermata da una seconda il 25 marzo 2010, che ha inserito la “diffamazione della religione”, alias qualsiasi critica all’islam e all’islamismo, tra le violazioni dei diritti umani i quali però, a rigore, di predicano solo delle persone fisiche, non dei sistemi di pensiero.
Ora giunge però, del tutto inatteso, il cambio di rotta. Riferiscono fonti dell’agenzia missionaria Fides che il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, riunito a Ginevra, ha approvato ieri una risoluzione che ha goduto dell’ampio sostegno di nazioni e Ong accreditate, fra cui quelle di ispirazione cristiana. Presentata dal Pakistan proprio a nome dell’OIC, la nuova risoluzione si discosta notevolmente da quelle precedenti: rispetta - spiega Fides - l’impianto tradizionale standard dei diritti umani e chiede «un dialogo globale per la promozione di una cultura di tolleranza e di pace a tutti i livelli, fondata sul rispetto dei diritti umani e della diversità di fedi e religioni», notando la complementarietà fra libertà di religione e libertà di espressione.
Sempre secondo fonti d’informazione raccolte dall’agenzia missionaria, a generare questo cambio di rotta sono stati i recenti omicidi di Salmaan Taseer (1944-2011) - il governatore, dal 2008, del Punjab ucciso a Islamabad da una delle sue guardie del corpo per avere criticato la legge sulla blasfemia che ha condannato a morte la cristiana Asia Bibi - e di Shahbaz Bhatti (1968-2011) - il ministro cattolico per le minoranze religiose del Pakistan - che hanno fortemente indignato la comunità internazionale e in qualche modo minato il terreno attorno alle politiche di Islamabad.
Adesso i cristiani pakistani - Fides ne riporta anonimamente le voci - sperano che «la risoluzione del Consiglio Onu possa servire da stimolo per il governo pakistano, perché riesamini a fondo la questione dalla blasfemia anche sul fronte interno». È questo, infatti, il punto nodale da sciogliere.
Sempre ieri, intanto, Paul Bhatti, fratello del ministro Shahbaz assassinato il 2 marzo scorso, è stato nominato “consigliere speciale” del Primo ministro pakistano per le minoranze religiose, di fatto con le medesime responsabilità del predecessore. Dal canto proprio, Paul Bhatti - un medico che da tempo risiedeva all’estero, in diversi Paesi fra cui anche l’Italia - ha espressamente detto al ministro degli Interni pakistano, Rehman Malik, incontrato ieri, di voler continuare l’opera del fratello, appellandosi pure agli studiosi e ai leader religiosi delle varie scuole di pensiero e di fede nel tentativo di creare un fronte antiterroristico unitario. A questo scopo, Bhatti sta per intraprendere un viaggio di esplorazione nelle varie province pakistane onde verificare la diverse situazioni e incontrare direttamente le guide delle minoranze religiose.
I cristiani pakistani proseguono peraltro la denuncia delle insufficienti indagini sull’assassinio di Shabah Bhatti, che giudicano fatte, male, per ingannare l’opinione pubblica.
Quali siano ora le motivazioni vere dell’improvvisa sterzata del Pakistan a proposito dell’internazionalizzazione della legge sulla blasfemia non è del tutto chiaro e i commentatori si chiudono in un opportuno riserbo di studio, attesa, valutazione.
Questo mutamento d’indirizzo sembra però frutto di ben altro che una illuminazione improvvisa.
Il Pakistan - lo descrive bene il citato dossier - non è infatti per nulla nuovo a rovesci di fronte sapientemente cesellati dentro una strategia di lungo e talora lunghissimo corso, la quale, alternando e dosando, soprattutto sul piano internazionale, il bastone e la carota, si destreggia fra doppi giochi e parziali voltafaccia (anche con i “nemici-amici” occidentali) senza però mai smettere di perseguire l’obiettivo principale. Che è e resta il progetto islamista.
Lo mostra del resto accuratamente il libro Pakistan, il santuario di al-Qaida (prefazione di Nicolò Pollari, Boroli, Milano 2010), scritto dall’inviato di guerra Gian Micalessin. Gravido di testimonianze e di documenti, il libro di Micalessin racconta la lunga marcia intrapresa dal Paese centroasiatico sin dai tempi del premier Zulfiqar Ali Bhutto (1928-1979) per torreggiare sul resto del mondo (anche musulmano). E questo anzitutto grazie alla prima bomba atomica islamica (ottenuta con una colossale operazione che mescola spionaggio industriale e sabotaggio), al commercio di eroina più spudorato del mondo, al traffico d’armi più danaroso e pericoloso che mai si sia visto (grazie a un ex agente sovietico cui il crollo del Muro di Berlino spezzò una promettente carriera nel Kgb, nonché di basi aeree fornite da qualcuno dei “moderati” Emirati Arabi Uniti), all’incursione nel mondo delle chimica a scopi bellici e soprattutto all’avere buggerato gli occidentali sostenendo da sempre (con i nostri soldi e con le nostre armi) la parte più improponibile dei mujaheddin ai tempi della guerra di liberazione nazionale antisovietica dell’Afghanistan (a danno, mortale, di altre frange più filoccidentali, moderate, utili e, sì, migliori di quei combattenti per la libertà). Quindi nell’avere in questo crogiuolo fatto sorgere sia il movimento dei talebani sia al-Qaeda, forti entrambi della costituzione della prima “legione straniera” islamista creata, ai tempi della guerra antisovietica in Afghanistan, con il beneplacito e i finanziamenti di altri Paesi d’area, primo fra tutti l’Arabia Saudita il cui rigorismo “puritano” wahhabita ammicca allo jihadismo ma al contempo teme, per motivi di ordine interno, la presenza di frange estremiste sul proprio territorio.
Micalessin spiega che nulla di tutto questo sarebbe stato mai possibile senza la regia accuratissima dell’Isi, l’Inter Services Intelligence - “la Cia pakistana” -, che ha manovrato despoti e democratici in un minuetto senza il quale tipi come il famoso mullah Omar (fisicamente condotto al centro di Kabul, per talebanizzare il Paese dopo la cacciata del governo comunista afghano, da Amir Sultan Tarar, nome di battaglia “colonnello Imam”, uomo forte dell’Isi e demiurgo del mullah Omar) non sarebbero forse mai esistiti.