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MARTIRI

Il mio appello dal fondo del carcere

«Adesso che mi conoscete, raccontate quello che mi è capitato. Credo che
sia la mia unica speranza di non morire in fondo a questa fossa».

Cultura 23_07_2011
Asia Bibi

 

Asia Bibi langue in carcere in Pakistan, il suo Paese, dal 2009. Asia Bibi è cristiana, e nel suo Paese già questo è un reato. In Pakistan, nel suo Paese, Asia Bibi, cristiana, cattolica, attende in carcere l’esecuzione della sentenza capitale a cui è stata condannata per "blasfemia". Perché nel suo Paese, il Pakistan, vige una "legge contro la bestemmia" che serve per colpire arbitrariamente e severamente tutti coloro che in un modo qualsiasi vengano ritenuti “nemici” dell’islam.

Un giorno del giugno 2009 Asia lavorava come ogni altro giorno alla fattoria del villaggio di Ittan Wali, nel distretto di Sheikhupura, in quel Punjab i cui governatori vengono ammazzati dalle proprie guardie del corpo poiché non fanatici pur se musulmani come Salmaan Taseer (1944-2011).
Ad Asia fu chiesto di andare alla fonte a procurar dell’acqua, ma poi alcune delle sue colleghe musulmane si rifiutarono di bere dal recipiente toccato dalle sue mani cristiane e "impure". Siamo nel Pakistan dei mille fondamentalismi islamici, non dimentichiamolo, un Paese il cui nome in lingua urdu significa "terra dei puri". Qualcuno pensò poi di arricchire il racconto inventandosi che, nell’alterco seguitone, la donna avesse proferito commenti pesanti sul profeta Maometto. Ne scoppiò una rissa, e Asia e i suoi familiari vennero assaliti e picchiati da una plebaglia incarognita. Non fosse stato per la polizia, la famosa pena capitale che pende oggi sul capo della donna avrebbe già avuto, sommariamente, ragione di lei in quei torridi giorni pakistani di due anni fa. Scampò. E però la polizia di uno Stato così, di uno Stato come il Pakistan in cui l’islam è protetto da una "fantasiosa" legge "contro la blasfemia" che serve solo a colpire i "nemici di fede", non molla. L’inchiesta seguita ai fatti di Ittan Wali rovesciò la situazione, spedendo Asia in prigione. Fu carcere preventivo, duro, per un anno. Alla fine, nel novembre 2010, il giudice Muhammed Naveed Iqbal del tribunale di Sheikhupura chiuse il caso condannando Asia alla morte per impiccagione. Più una multa si 1.100 dollari.

Là, nel braccio delle morte della prigione di Sheikhupura, la vittima di questa storia assurda dovrebbe oggi avere 40 anni, nella "terra dei puri" l’anagrafe è quel che è. Il suo nome vero è Asia (o Assiya) Noreen, sposata ad Aashiq Fauji Masih, 51 anni, suo devoto consorte e irriducibile difensore. La consociamo tutti come Asia Bibi e la cosa sa di bella favola orientale, di principesse e di altri modi. "Bibi", infatti, è un titolo di rispetto che si usa accompagnare al nome delle giovani donne e in urdu significa qualcosa che potremmo rendere con "damigella". Ironico per un Paese intriso di quell’islam che impone alle donne di nascondersi persino alla vista. Dama Asia, bella e innocente, deve pagare con la vita la sua fede. Se la sentenza di morte verrà eseguita, Asia sarà la prima vittima della famigerata legge sulla "blasfemia".

Mercoledì 20 aprile 2011, in piena Settimana Santa, il mondo intero ha pregato pregherà per la salvezza di Asia. E ancora lo può fare, visto che la situazione dei cristiani come lei - salvo qualche rara e buona eccezione - peggiora di girono in giorno. Per esempio da quando, il 1° luglio, è stato cancellato ufficialmente il dicastero che fu del cristiano Shabhaz Bhatti (1968-2011) e che gli è costato la vita.

Di seguito offriamo alla lettura e alla meditazione alcuni passi deli libro Blasfema. Condannata a morte per un sorso d’acqua (Mondadori 2011, pp.100, €16,90), scritto dal carcere da Asia Bibi assieme alla giornalista francese Anne-Isabelle Tollet.

* * *

Vi scrivo dal fondo del mio carcere, a Sheikhupura, in Pakistan, dove sto vivendo i miei ultimi giorni. Forse le mie ultime ore. Così ha deciso il tribunale che mi ha condannata a morte.
Ho paura.
Ho paura per la mia vita, per quella dei miei figli e di mio marito, che stanno soffrendo: con la mia condanna è stata condannata tutta la mia famiglia.
La mia fede però è forte e prego il nostro Dio misericordioso di proteggerci. Quanto vorrei che sulle loro labbra tornasse il sorriso! Ma sono sicura che non vivrò abbastanza per vedere quel giorno. Gli estremisti non ci lasceranno mai in pace.
Non ho mai ucciso, mai rubato… Ma per la giustizia del mio paese ho fatto di peggio: mi sono macchiata di blasfemia.

Il crimine dei crimini, l’oltraggio supremo. Mi si accusa di avere parlato male del profeta. Un’accusa con cui si può togliere di mezzo chiunque, quali che siano il suo credo religioso o le sue idee. Mi chiamo Aasiya Noreen Bibi. Sono una «ragazza da nulla», come si dice qui. Un’umile contadina di Ittan Wali, minuscolo villaggio del Punjab, nel Pakistan centrale. Ciononostante, oggi sono conosciuta in tutto il mondo. Tutti sanno chi è «Asia» Bibi.

Io non ho mai bestemmiato! Sono innocente! Sto soffrendo senza avere commesso il minimo atto criminale.
Voglio dire al mondo intero che io rispetto il profeta. Sono cristiana, credo nel mio Dio, ma ognuno dev’essere libero di credere in ciò che vuole.
Da due anni sono imprigionata e mi è stato tolto il diritto di parola. Vorrei finalmente potermi spiegare. Gridarela verità.
Salman Taseer, il governatore del Punjab, e Shahbaz Bhatti, il ministro per le Minoranze, sono morti per avermi dato sostegno. Sono stati uccisi dai fondamentalisti. È stato orribile: a tanta crudeltà non si arriva nemmeno quando si uccidono degli animali. Penso alle loro famiglie, e mi viene da piangere.
Come ha detto Salman Taseer, «nel Pakistan dei nostri padri fondatori, questa legge sulla bestemmia non esisteva». Grazie ad Ashiq, il mio caro marito, grazie agli avvocati della Fondazione Masihi, che si occupano di me a rischio della loro vita, grazie a persone che per ragioni di sicurezza devono rimanere nell’anonimato, oggi sono in condizione di scrivervi, dalla cella in cui mi hanno sepolta viva. Lo faccio per chiedervi di aiutarmi, di non abbandonarmi.
Ho bisogno di voi.

* * *

Cinque giorni dopo mi hanno già rinchiusa in prigione e mi ritrovo dietro queste sbarre, in questa tomba senza sole. E anche senza stelle.
Mi sono accorta che ormai da due anni non vedo le stelle. I primi mesi non mi rendevo conto di quanto mi mancassero. Poi ho capito che non era naturale essere privati delle stelle o della luna. Mi mancano quasi quanto la luce del giorno, il sole, gli alberi, gli uccelli. Nella mia cella ho l’impressione di trovarmi in un pozzo senz’acqua. Vorrei poter salutare la luna o il sole, anche solo una volta, per essere sicura che non abbiano impiccato pure loro. Vorrei guardare le piccole gemme della notte, come facevo con le mie bambine nelle notti d’estate, distesa sul charpai (come noi chiamiamo le brandine di paglia intrecciata), in cortile.

* * *

Ho paura, dopo l’assassinio del ministro ho una paura infinita. Attendo il momento in cui Dio mi accoglierà come si attende un’oasi quando ci si trova in pieno deserto. Sono stremata. Ho bisogno di riposo. Ma nonostante tutto, non credo che gli uomini possano sostituirsi a Dio e decidere l’ora della morte di un altro essere umano. Quando verrà la mia ora, mi rassegnerò. La sola cosa che mi permette di resistere, malgrado tutte le privazioni, tutte le vessazioni e quest’angoscia che non mi dà tregua, è la certezza della mia innocenza. La certezza di essere vittima di un’ingiustizia. E la volontà di testimoniare, di fare in modo che la mia lotta possa aiutare altre persone. Non sono istruita, ho sempre condotto una vita semplice, eppure oggi mi dico che forse questa vita potrà incidere su quella del mio paese.

Da quando Shahbaz Bhatti è stato ucciso, ogni giorno ho paura di vedere entrare nella mia cella la persona che mi darà la morte. Non c’è più il ministro a proteggermi con la sua benevolenza. Ma so che altri ne hanno preso il testimone. Stranieri scossi dalla mia sorte, ma anche uomini de l mio paese.

Continuo a ripetermi queste cose per farmi coraggio. Miaggrappo anche all’immagine della mia famiglia. A mio marito, saldamente schierato al mio fianco. Ai miei figli… i miei tesori, che non vedo da tanto tempo. L’idea che siano vivi, a dispetto delle minacce che ricevono, mi scalda il cuore. Darei la vita anche dieci volte se avessi la certezza che questo potrebbe salvare la loro. Voglio che siano felici e ritrovino la pace che è stata tolta loro dopo la mia incarcerazione. Accada quel che accada, desidero che riescano a costruirsi una vita e a trasmettere tutto l’amore che provo per loro. Sono come semi di speranza e d’amore, dai quali sorgerà, spero, un giardino fiorito.

Ecco, ora mi conoscete un po’ meglio. È a voi che vorrei rivolgermi. Avete letto la mia storia, avete imparato a conoscere il mio paese, la nostra vita, che nonostante tutto è serena, o che comunque potrebbe esserlo. Io sono solo una donna nell’oceano di donne di questo mondo, ma sono umilmente convinta che il mio calvario sia lo specchio di molti altri. Vorrei tanto che i miei aguzzini aprissero gli occhi, che la situazione del mio paese cambiasse…

Adesso che mi conoscete, raccontate a chi vi sta intorno quello che mi è capitato. Fatelo sapere. Credo che sia la mia unica speranza di non morire in fondo a questa fossa.
Ho bisogno di voi!
Salvatemi!

Prigione di Sheikhupura, aprile 2011