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LA CONDANNA

Il metodo Iene e quando il giornalismo deve fermarsi

Il giudice ha condannato una troupe delle Iene per violenza privata dopo aver insistentemente cercato di inseguire la giornalista Guia Soncini. Non sempre il “metodo Iene” è scusato dal legittimo diritto di cronaca: serve un equilibrio tra l'interesse pubblico e la protezione dei diritti della persona.

Editoriali 17_03_2021

Quali sono i limiti del giornalismo d’inchiesta? Fin dove possono spingersi i giornalisti nell’incalzare i loro interlocutori nel tentativo di ottenere risposte alle loro domande? Il confine è sempre molto sottile e la bussola orientatrice del corretto esercizio del diritto di cronaca è il bilanciamento tra l’interesse pubblico e la protezione dei diritti della personalità dei protagonisti dei fatti.

Un mese e mezzo fa il Tribunale di Milano ha condannato a due mesi, convertiti in 15.000 euro di pena pecuniaria, per il reato di violenza privata, il giornalista Luigi Pelazza che, per la trasmissione Le Iene, aveva inseguito in modo pressante con microfono e cameraman la giornalista Guia Soncini.

Il fatto risale al settembre 2015. Pelazza l’aveva inseguita fino al portone della palazzina all’interno del condominio e poi sulla porta dell’ascensore, rivolgendole insistenti domande relative a un processo nel quale era imputata di accesso abusivo a sistema informatico, intercettazione illecita di comunicazioni e violazione di corrispondenza per le presunte foto rubate di Elisabetta Canalis e dell’allora suo fidanzato George Clooney in occasione di una festa nella villa dell’attore sul lago di Como. Quel processo si risolse poi con l’assoluzione della Soncini e degli altri imputati (Selvaggia Lucarelli e Gianluca Neri).

I giudici milanesi hanno ritenuto che Pelazza, «frapponendo il piede tra il montante e il portone d’ingresso» del condominio della Soncini, le abbia impedito di chiudere la porta d’ingresso «frustrando in tal modo la sua libera determinazione di bloccare l’accesso al giornalista e al cameraman, non gradendo di essere né intervistata né ripresa dalle telecamere». Pur di non farsi inseguire fin dentro casa dagli inseguitori, la Soncini si era vista costretta a sedersi per terra e da lì aveva chiamato i carabinieri.

Questo comportamento del giornalista, secondo i giudici milanesi, ha costituito un mezzo anomalo diretto a esercitare pressione sulla volontà altrui, e così ha «ancora una volta coartato la libertà di movimento e la capacità di autodeterminazione» della persona oggetto del tentativo di intervista, «avendole impedito di raggiungere casa» e «costringendola a tollerare di essere ripresa per tutto il tempo dell’intervista contro la propria volontà».

Stando a quanto riportato nel capo d’imputazione, Pelazza e Verri (il cameraman), si erano introdotti indebitamente, fingendosi dei corrieri, nello stabile della donna.

Evidentemente si tratta di forzature contrarie alla legge e, da un punto di vista strettamente professionale, alla deontologia. Se il reato di violenza privata è stato sanzionato dall’autorità giudiziaria, da un punto di vista disciplinare a Pelazza potrebbe essere ascritta una violazione dell’art.2 del Codice deontologico del giornalista in materia di privacy (1998), allegato al Testo unico dei doveri del giornalista (2016), avendo egli occultato la sua identità e il suo ruolo professionale e utilizzato in maniera discutibile i mezzi fraudolenti (telecamere, registratori, microfoni, ecc.). Quell’articolo è molto chiaro: il giornalista ha l’obbligo di trasparenza e deve dichiarare sempre la sua identità e le finalità della raccolta dati. Può utilizzare trucchi e raggiri solo se rischia l’incolumità e se deve acquisire una notizia di evidente interesse pubblico non recuperabile in altro modo.

Nel caso di specie non siamo in nessuna delle due ipotesi. L’esimente del diritto di cronaca non è dunque invocabile né sul piano giuridico né su quello deontologico per giustificare la condotta disinvolta e spregiudicata di Pelazza. Il suo comportamento si è risolto in un attacco personale alla Soncini, con inevitabile screditamento della sua figura professionale, ancora prima dell’accertamento della sua eventuale colpevolezza, poi esclusa dalla sentenza con la quale è stata definitivamente assolta.

«È una sentenza importante - afferma l’avvocato difensore della Soncini, Davide Steccanella - perché ha stabilito che non sempre il “metodo Iene” è scusato dal pure legittimo diritto di cronaca. In questo caso si era trattato di un vero e proprio agguato nel cortile interno di un palazzo privato, impedendo alla mia cliente di fare rientro in casa propria fino all’arrivo delle forze dell’ordine per confezionare un servizio a effetto».

Ma Pelazza non ci sta: «Accettiamo questa sentenza ma è ovvio che riteniamo di non aver sbagliato, quindi ricorreremo in Appello e in Cassazione. Questo è sicuro, perché non è nostra abitudine usare violenza nei confronti delle persone, e soprattutto delle donne. Ma ti pare che noi andiamo a usare violenza, ingiuriare, molestare? Assolutamente no».

Un conto, quindi, è difendere il giornalismo d’inchiesta dalle censure del potere, altra cosa è legittimare abusi ai danni della personalità altrui definendoli nobili esempi di libertà d’informazione.