IL CASO
Il matrimonio vero non è mai clandestino
Sebbene per l'immigrato sia un dovere regolarizzare la sua posizione, nessuna legge può impedire a un cittadino di sposarsi.
Attualità
29_07_2011
Il caso nasce in quel di Catania. Lei è italiana, lui marocchino. A luglio del 2009 decidono di sposarsi ma, ahiloro, solo dodici giorni prima l’art. 116 del Codice Civile è stato modificato dalla legge n. 94/2009: oltre a vari documenti che i nubendi devono presentare all’ufficiale di stato civile - e che loro in effetti presentano – ora se ne aggiunge un altro - che invece non hanno - “attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano”. L’ufficiale nega quindi il permesso di celebrare le nozze. Il caso approda prima al Tribunale di Catania e poi alla Corte Costituzionale la quale il 20 luglio scorso dichiara l’illegittimità costituzionale di quella parte dell’articolo del Codice civile che esige l’esibizione del permesso di soggiorno.
La consulta ha deciso così perché in buona sostanza il diritto di contrarre matrimonio è un diritto fondamentale che non può essere negato a nessuno, nemmeno all’immigrato clandestino. La sentenza degli ermellini non è pienamente condivisibile sia per alcuni motivi messi ben in evidenza dall’Avvocatura dello Stato sia per altri su cui ci soffermeremo tra breve. L’Avvocatura dello Stato ha affermato che il requisito della regolarità di soggiorno “tende a soddisfare l’esigenza del legislatore di garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori”. Vero è che la libertà di contrarre il matrimonio è sacrosanta, a patto però che tale libertà non vada a cozzare contro il bene comune, cioè nello specifico con la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico. A tale proposito il legislatore ha considerato “lo status di ‘clandestino’ ” come “una situazione giuridica soggettiva valutabile negativamente in punto di ordine pubblico e sicurezza” e, dunque, sufficiente a giustificare la limitazione del diritto a contrarre matrimonio.
In parole povere: prima tu immigrato ti metti in regola – e così mi dai prova che non sei qui in Italia a combinar guai – e poi potrai sposarti. Altrimenti il matrimonio potrebbe diventare un passepartout per delinquere più agevolmente grazie al nuovo status di coniuge di cittadino italiano. In secondo luogo la difesa dello Stato annotava che la regolarità di soggiorno si inserisce nell’orientamento generale voluto dalla legge di proibire matrimoni di comodo, cioè matrimoni fittizi tanto per lucrare la cittadinanza italiana. Oggi la legge 91/92 prevede che “il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica”. Ora lo status di clandestino cozza con l’avverbio “legalmente”.
Come si fa a dare prova di risiedere legalmente nel nostro Paese per coloro i quali in punta di diritto sono solo dei fantasmi? In merito poi al diritto fondamentale di coniugio l’Avvocatura dello Stato fa giustamente osservare che l’accesso a tale diritto non è vietato all’immigrato né compresso, ma, al pari di tanti altri diritti, semplicemente disciplinato. L’obbligo di presentare il permesso di soggiorno si limita dunque a “regolamentare la posizione giuridica del cittadino straniero che intende contrarre matrimonio in Italia”. Nulla di nuovo sotto il sole anche per gli stessi cittadini italiani. Anche il diritto alla salute è diritto fondamentale, ma non per questo non esistono procedure che i cittadini devono seguire (poniamo mente tra i moltissimi esempi all’iter da rispettare per vedersi riconosciuta una disabilità), nonché doveri precisi (ad esempio le vaccinazioni obbligatorie) e restrizioni (pensiamo ai ticket).
Insomma c’è un importante distinguo tra necessario riconoscimento dei diritti fondamentali a tutti – anche per i clandestini – e loro esercizio, sottoposto a regole. Non si uccide il principio di uguaglianza trattando in modo diverso casi diversi (immigrato regolare – immigrato clandestino), bensì lo si rispetta. Altrimenti si scade nell’egualitarismo inteso come omologazione e livellamento verso il basso: pari libertà di accesso ai diritti al di là delle differenze specifiche, le quali sono sempre bandite. E’ purtroppo storia nota nel nostro ordinamento. Non importa se tu sei sterile e non puoi avere figli: un falso principio di uguaglianza ti darà tramite Fivet il figlio tanto desiderato. Non importa se sei nato maschio e vuoi diventare femmina: lo Stato non ti discrimina e ti permette di cambiare orientamento sessuale. Dunque secondo questa logica, e tornando al tema “matrimonio”, i 13enni - o i loro genitori - un giorno potrebbero protestare perché la legge italiana, con profonda acredine discriminatoria, proibisce loro di convolare a giuste nozze. Oltre a queste motivazioni dell’Avvocatura che considerano lo status di clandestinità come incompatibile a contrarre matrimonio civile ne vogliamo aggiungere qui un paio.
Innanzitutto un matrimonio non clandestino – cioè riconosciuto civilmente – contratto con un clandestino suona strano. Come si fa ad avere tra due persone una relazione considerata regolare dal punto di vista normativo, quando una delle due è irregolare? In altri termini è da evidenziare il paradosso di natura giuridica secondo il quale, seguendo il ragionamento della Corte Costituzionale, è giusto che il clandestino chieda di venire alla luce del sole unicamente per contrarre matrimonio e altresì di ritornare nell’ombra per tutti gli altri affari della sua vita. E dunque per tutti gli altri ambiti del vivere pubblico la rimanente disciplina normativa non si può applicare a lui perché soggetto che vive non all’ombra del diritto, bensì nell’ombra del diritto.
Detto in soldoni se si vuole contrarre matrimonio secondo il nostro ordinamento giuridico allora si deve comprare tutto il pacchetto, cioè si deve accettare in toto ogni sua norma ed uscire allo scoperto completamente. Per chi è straniero e vive seppur temporaneamente sul nostro suolo l’ordinamento giuridico non deve essere considerato come un supermercato dove si prendono solo quelle leggi che fanno comodo, dove si chiede il prodotto “matrimonio” e gli altri articoli si rifiutano perché privi di interesse o addirittura scomodi.
E poi c’è da domandarsi: come obbligare il clandestino ad ottemperare a tutti gli oneri giuridici che gravano su chi contrae matrimonio? Si sa che chi vive in clandestinità è più agevolato a farla franca a danno, in questo caso, dell’altro coniuge e di eventuali figli. In secondo luogo se la libertà di contrarre matrimonio, che per la consulta è compromessa dalla presentazione del permesso di soggiorno, è così importante per l’immigrato, allora non si vede il motivo per cui questi non si possa/voglia regolarizzare. Se è un diritto fondamentale come dice la Consulta non si vede il perché l’immigrato clandestino non faccia di tutto per tutelarlo, tra cui ottenere e esibire il permesso di soggiorno. Infine il positivismo granitico di cui è impregnata la Consulta fa scordare a questi magistrati una verità che invece la Chiesa proclama da duemila anni, che brilla nel fondo del cuore di ogni uomo sin dalla più remota antichità e che è pure enunciata dalla nostra Costituzione (art. 29): il vero e unico matrimonio è quello fondato sul diritto naturale.
Se dunque una cittadina italiana e un immigrato clandestino desiderano costituire una famiglia monogamica aperta alla vita per amarsi fedelmente finchè morte non li separi non c’è nulla al mondo che possa vietare loro di sposarsi, contraendo un vero e proprio matrimonio. Magari non riconosciuto dalle leggi dello stato, ma sicuramente riconosciuto dalla legge naturale.