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L’insegnamento

Il martirio, un elemento costitutivo della Chiesa

Gesù invia gli apostoli come pecore in mezzo ai lupi, cioè in un mondo ostile, ieri come oggi. Come i primi discepoli, tutti i cristiani sono chiamati a confessare pubblicamente il suo Nome, anche a costo del martirio. Sapendo di condividere, con Gesù, croce e risurrezione.

Ecclesia 11_08_2024 English Español

Proponiamo alcuni estratti del saggio Zeuge der Wahrheit (Testimoni della verità), che il teologo Erik Peterson (1890-1960) scrisse, nel 1937, nella sua critica alla teologia politica di Karl Schmitt. Si tratta di riflessioni che possono aiutare a scuoterci dal torpore di una fede “disciplinata” al servizio di un potere pubblico che vuole addomesticare la Rivelazione cristiana e porla al proprio servizio, a sostegno di ideologie che, con sempre più insistenza, vogliono imporsi come la prospettiva unica e definitiva dell'uomo.

I testi riportati sono estratti da Témoin de la verité (Ad solem, Ginevra, 2007, pp. 78-91).

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Nel discorso che rivolge ai Dodici nel momento di inviarli in missione, Gesù parla così: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani» (Mt 10, 16-18) [Peterson riporta quasi integralmente i restanti versetti del capitolo 10, a cui rinviamo il lettore, ndr].

Si deve sottolineare che, in primo luogo, secondo le parole di Gesù, gli apostoli non sono inviati ad un'umanità che ha un atteggiamento neutrale e che, piena d'ispirazione religiosa, sarà pronta ad accogliere a braccia aperte la predicazione apostolica del regno di Dio. No: sono inviati come pecore in mezzo ai lupi, il che presuppone, come fa notare sant'Agostino in una delle sue omelie, che i lupi sono più numerosi delle pecore. E le pecore sono mandate ai lupi (…). Gli apostoli hanno dunque tutto da guadagnare nel diffidare degli uomini, ossia, concretamente, dei giudei e dei pagani. L'insegnamento che li mette in guardia contro una tale ostilità è preoccupante. Ed è determinato dal fatto che, con la manifestazione di Cristo, gli ultimi tempi – questi tempi critici nei quali non è più questione di riappacificazione ma di giudizio, non di pace ma di spada – hanno fatto irruzione.

In questi tempi critici, che inaugurano la manifestazione di Cristo, in cui tutti gli ordini naturali si sfaldano, in cui gli uomini non sanno nemmeno più evitare di spargere sangue – Gesù dice persino che il fratello metterà a morte il fratello, e i figli i loro genitori –, in questi tempi dunque che annunciano la fine dell'era presente del mondo, Gesù formula una tale esigenza: «Chi ama suo padre o sua madre più di me non è degno di me». È chiaro che chi è venuto a portare la spada non può promettere altro ai suoi discepoli che di essere odiati da tutti per causa sua. Egli sa che saranno oltraggiati, flagellati e messi a morte, sa che gli sarà data la caccia, che dovranno fuggire da una città ad un'altra. Se resisteranno fino alla fine, fine della loro vita o di questo mondo, riceveranno allora la loro liberazione e la loro felicità, come promesso (…).

L'esigenza ultima di Gesù è dunque questa: i suoi discepoli devono pubblicamente, apertamente, rendergli testimonianza e confessare il suo Nome. Colui che si dichiara apertamente per Gesù sulla terra, egli, Gesù, si dichiarerà apertamente per lui davanti al Padre suo che è nei cieli. Perché nel tempo del giudizio, nel tempo escatologico, non vi sarà altra possibilità: confessare Gesù o rinnegarlo. Cercare di cavarsela isolandosi in una pietà anonima, o rimanendo nell'oscurità, è ormai escluso, non per una scelta umana, ma proprio da Colui che ha portato la spada e il cui nome – o dolce Nome di Gesù – provoca una divisione che non risparmia neppure la sfera privata della famiglia, ma che separa il figlio dal padre e la figlia dalla madre (Mt 10, 35). (…)

Il secondo aspetto che si può ricavare dalle parole di Gesù è che il martirio appartiene in modo necessario e costitutivo alla Chiesa. Un certo numero di spiriti concilianti sono inclini a credere che tutto quello che di male capita in questo mondo possa essere attribuito a dei semplici fraintendimenti. A sentirli, bisognerebbe concludere che la crocifissione di Cristo e il martirio degli apostoli sono la conseguenza di tali fraintendimenti; e quando l'ora del martirio suona nuovamente per la Chiesa, costoro pensano ancora che ci dev'essere stato un malinteso. Le parole di Gesù mostrano al contrario che non è un'incomprensione umana a creare il martire, ma una necessità divina. La parola di Gesù, «non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze?», domina ogni sofferenza nella Chiesa. Per tutto il tempo che il Vangelo sarà annunciato in questo mondo – ossia fino alla fine dei tempi –, la Chiesa avrà dei martiri. Se il messaggio di Gesù si riducesse ad una semplice filosofia da discutere a piacere negli anni o nei secoli, non vi sarebbero martiri. E se anche accadesse che degli uomini muoiano per questa specie di filosofia di Cristo, non sarebbero martiri nel senso cristiano del termine. Perché, sottolineiamolo ancora una volta in modo chiaro, non sono le convinzioni o le opinioni umane, o ancora più decisamente, non sono i fanatismi religiosi che fanno il martire, è Cristo che chiama al martirio e che di conseguenza ne fa una grazia particolare, questo Cristo che è predicato dalla Chiesa nel Vangelo, che è offerto in sacrificio sull'altare, e che tutti quanti sono battezzati in Lui sono tenuti, in coscienza, a confessarne pubblicamente il Nome. (…)

Il terzo punto che emerge dalle parole di Gesù è che il martirio esprime la pretesa della Chiesa di Gesù Cristo di scendere sulla pubblica piazza. Se il martire deve rendere ragione davanti alle autorità pubbliche – nei sinedri e nelle sinagoghe, davanti a governatori e re –, dev'essere soggetto a processi pubblici e incorrere nelle pene previste dal diritto, è essenzialmente per confessare pubblicamente il Nome di Gesù. Ma dando testimonianza davanti ai tribunali, ossia in pubblico, davanti alle autorità dello Stato, di Colui che verrà nella gloria del Padre per giudicare il mondo, ossia giudei e pagani, il martire fa saltare la concezione dell'ordine di questo mondo per annunciare quello di un mondo futuro, altro, nuovo. Chi confessa pubblicamente Gesù sulla terra verrà, nel medesimo istante della sua confessione, riconosciuto pubblicamente in cielo da Gesù. All'importanza dell'atto della confessione sulla terra corrisponde la solennità della proclamazione da parte di Gesù del nome del confessore davanti a Dio e agli angeli (cf. Lc 12, 8).

Poiché si tratta di una confessione e non della semplice ammissione di un fatto, le parole del martire davanti all'autorità pubblica non sono più parole umane, ma quelle che lo Spirito del Padre pronuncia dall'alto, per mezzo della voce del confessore di Gesù Cristo. Anche se il mondo non è in grado di vedere in queste parole nient'altro che l'ammissione di una colpa, la Chiesa sa che nella confessione più semplice, “sono cristiano”, pronunciata davanti ai rappresentanti del potere pubblico, è lo Spirito Santo a parlare ed è il regno di Gesù Cristo ad essere annunciato. La Chiesa sa che quando il martire dà testimonianza a Cristo, il cielo si apre, come nel momento della lapidazione di Stefano, e appare il Figlio dell'uomo, che non solamente si dichiara solennemente davanti agli angeli in favore di colui che l'ha confessato sulla terra, ma, tenendosi alla destra di Dio, annuncia anche il tribunale futuro davanti al quale i giudici di questo mondo, che siano giudei o pagani, riceveranno la sentenza della loro condanna.

L'ultimo aspetto che possiamo trarre dalle parole di Gesù è che il martire soffre con Cristo come membro del corpo mistico. Allorché noi diciamo che il martire soffre con Cristo, ciò significa che la sua sofferenza non si limita al semplice fatto che soffre per Cristo. Molti soldati hanno accettato di morire per il loro re, ma ciò che differenzia la morte dei martiri dalla loro è che il martire non soffre solamente per Cristo, ma che egli partecipa alla morte stessa di Cristo. La caratteristica della Passione di Cristo – per il fatto che Colui che l'ha patita è il “Figlio dell'uomo”, che si è incarnato – è che abbraccia tutta la Chiesa, suo corpo mistico. Perciò, chi è divenuto con il Battesimo membro del suo corpo, gli appartiene fin nella morte di Cristo. Ed è per il fatto che, colui che nell'Eucaristia rende grazie a Dio di averci inviato suo Figlio, è reso partecipe della Passione di Gesù nel mangiare il suo corpo immolato e nel bere il calice della nuova alleanza. Poiché siamo battezzati nella morte di Cristo e nutriti del suo sangue, è inevitabile che chiunque appartiene alla Chiesa abbia parte alle sofferenze di Cristo. (…)

Egli sa che noi tremiamo all'idea di seguirlo, che siamo deboli e che non vogliamo prendere la croce, che abbiamo paura della povertà, della diffamazione, degli oltraggi, delle percosse e della morte. Ma Lui che ha portato questa carne titubante scaccia la nostra pusillanimità quando ha vinto la sua, come ha scritto sant'Atanasio. Perché tutto quello che si realizza nella Chiesa riposa su questo fondamento: Cristo non è solo morto, è anche risuscitato, così che non è solamente la Passione che abbraccia la Chiesa, suo corpo mistico, ma anche la potenza della sua Risurrezione (…). È per questo che i tormenti fisici, le sofferenze e la morte dei martiri non sono l'ultima parola. L'ultima parola è la vittoria che riportano, nella gloria di Cristo, su questo mondo, e che li conduce direttamente in Paradiso.