Il Magistero parallelo dei teologi italiani
I commenti letti nei giorni scorsi sull'opera del teologo morale don Enrico Chiavacci, morto due settimane fa, mettono in rilievo una grande confusione tra ciò che è fedele alla dottrina della Chiesa e le opinioni dei singoli teologi. Come nel caso della legge morale naturale.
Il 25 agosto scorso è morto a Firenze, all'età di 87 anni, don Enrico Chiavacci. E' un nome che ai più forse non dirà molto, eppure è stata una figura che ha avuto un ruolo importante nella teologia morale italiana. Le sue posizioni sono apparse spesso in contrasto con quanto affermato dal Magistero, ma ciò non ha impedito che fosse per decenni docente nella facoltà di Teologia dell'Italia centrale e i suoi scritti hanno influenzato generazioni di sacerdoti e teologi. Ma ciò che colpisce sono i commenti letti in occasione della sua morte, in cui don Chiavacci appare sorprendentemente una sorta di "custode dell'ortodossia". Basterebbe leggere i passi dell'omelia dell'arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, al suo funerale, riportati da Avvenire («C’è una stretta connessione tra la limpidezza delle intenzioni nel trasmettere la Parola e la correttezza oggettiva dei suoi contenuti»), oppure la testimonianza di Gianni Gennari su Vatican Insider («Fedele alla dottrina....»). Senza voler giudicare la persona e le sue intenzioni, non si può però tacere che il contenuto della teologia morale di don Chiavacci non è affatto in sintonia con la dottrina e il Magistero, e non certo su questioni secondarie, come peraltro dimostra il breve saggio di padre Giorgio Carbone che qui pubblichiamo.
La questione va ben oltre la teologia di don Chiavacci, è un problema molto più generale perché non è la prima volta che accade, e dimostra l'esistenza di un vero e proprio "magistero parallelo" che da anni si insegna nei seminari e nelle facoltà teologiche e che, oltretutto, riceve l'avallo anche di diversi vescovi. Con grande confusione per i semplici fedeli.
«La vera natura dell’uomo è il non aver natura»: questa tesi, enunciata a modo di slogan, la ritroviamo in molti scritti di don Enrico Chiavacci. Letteralmente è nella voce Legge naturale (in L. Rossi e A. Valsecchi (edd.), Dizionario enciclopedico di teologia morale, Paoline 1973, p. 491): «L’uomo non è definibile se non come colui che tende verso, che ha il compito di scegliere se stesso e il proprio cammino di autorealizzazione. La vera natura dell’uomo è il non aver natura. In queste condizioni dedurre dalla natura umana precetti operativi descrivibili e imponibili dall’esterno, dal filosofo, dal sovrano, dallo stesso Magistero ecclesiastico è impensabile». Ma anche più recentemente: «Quando si parla di natura e per conseguenza di legge naturale occorre sempre tenere presente che la natura non è un dato fisso e immutabile valido per tutti e per sempre: è un dato che varia e varia per due motivi. Varia costantemente, anche se in modo impercettibile, con l’evoluzione continua della specie nelle varie aree ambientali e culturali in cui la specie umana sussiste. Varia però anche da individuo a individuo nelle complesse strutture cerebrali e nella loro interazione che oggi la scienza comincia a comprendere e indagare» (Omosessualità, un tema da ristudiare, in Rivista di teologia morale 2010, p. 474).
La presentazione della nozione di natura umana come qualcosa di vago e privo di un contenuto preciso è funzionale a ottenere un risultato: negare il carattere oggettivo, universale e immutabile della legge morale naturale. Di fatti troviamo scritto: «Caratteristica dunque della legge naturale è proprio quella di non essere positiva, cioè non scritta né scrivibile una volta per tutte» (Legge naturale, in L. Rossi e A. Valsecchi (edd.), Dizionario enciclopedico di teologia morale, Paoline 1973, p. 486).
Anche il manuale Teologia morale. Morale generale (Cittadella 1977, pp. 132-153), esprime queste stesse idee. In particolare respinge l’idea della legge morale come insieme di precetti, per il fatto che – a suo dire – il precetto limita l’ambito di esercizio della libertà umana ed è incompatibile con la nozione di coscienza.
Nel leggere questi testi si ha la sensazione di trovarsi davanti a giochi di parole, al compiacimento dell’ambiguità e dell’equivoco. Comunque meraviglia che non ci siano delle definizioni. Eppure un manuale o delle voci di enciclopedie dovrebbero muovere qualsiasi ragionamento proprio da definizioni.
Ebbene il primo equivoco è sul concetto di natura umana rilevante ai fini del discorso etico. Per natura umana non si intende ciò che l’uomo condivide con la natura, cioè qualche caratteristica corporea o la solidarietà con il cosmo. Ma la “natura umana” eticamente rilevante è ciò che caratterizza l’essere umano, rispetto agli altri viventi, e che è all’origine del suo agire. La “natura umana” è il principio essenziale e operativo di ognuno di noi e consiste nella capacità di conoscere e amare gli obiettivi (cioè i fini) della propria vita, sia in astratto che in concreto. In secondo luogo ogni uomo, attraverso l’esperienza conoscitiva e affettiva di se stesso, giunge a conoscere i fini della propria esistenza: questi fini sono segnalati da inclinazioni strutturali e native. Ad esempio l’inclinazione a conservarsi nell’esistenza segnala come fine e bene da compiere (quindi bene morale) l’esistenza fisico-corporea. Poi l’inclinazione a conoscere il reale segnala un altro fine umano e cioè la conoscenza del vero. Quindi, l’inclinazione a vivere in società e ad amare segnala altri fini come l’amore fraterno e l’amore sponsale. Ora la natura umana come sopra definita e i fini segnalati dalle inclinazioni strutturali dell’essere umano sono elementi universali che possiamo riconoscere nelle civiltà umane che si sono succedute nei secoli. E quindi costituiscono l’ossatura del carattere universale e immutabile della legge morale naturale.
Il secondo equivoco è relativo al presunto carattere non precettivo della legge morale naturale. Stupisce che questi molteplici testi dedicati al tema citino sì Tommaso d’Aquino, ma non citino mai questi suoi laconici insegnamenti: «lex non est aliud, nisi dictamen rationis, la legge non è altro che un dettato della ragion pratica» (Somma teologica I-II, 91, 1 e 2); «lex est ordinatio rationis, la legge è un ordinamento della ragione» (Somma teologica I-II, 90, 2 e 4); «lex naturalis est aliquid per rationem constitutum, la legge morale naturale è qualcosa prodotto dalla ragione» (Somma teologica I-II, 94, 1). Le citazioni potrebbero facilmente moltiplicarsi. Ma vogliono dire sempre la stessa cosa: la legge morale, e in particolare la legge morale naturale è un prodotto della ragion pratica, cioè è un enunciato, un giudizio (soggetto, copula e predicato) nel quale il soggetto è un atto umano e il predicato è espresso in termini gerundivi, cioè «da farsi» o «da evitarsi». Quindi, la legge morale naturale si pone come un progetto che precede e orienta un’attività libera e responsabile, sollecita la libertà umana, non la soffoca, ma la conduce al bene integralmente umano.
La legge morale naturale è un insieme di enunciati universali espressi sempre alla forma gerundiva e non va confusa – come sembra facciano i testi di Chiavacci – con il giudizio di prudenza e con il giudizio di scelta. Questi ultimi due giudizi riguardano un atto singolare e concreto: in particolare la virtù cardinale della prudenza dà all’intelletto pratico l’abilità nel formulare il giudizio direttivo dell’atto singolare. Tale giudizio (di prudenza e di scelta) non è semplice deduzione logica, ma è applicazione della legge morale alle circostanze concrete e singolari. È una conclusione che presenta aspetti nuovi e originali, perché alla formulazione di tale giudizio concorrono gli habitus morali personali, le passioni, la volontà di applicare la scienza etica, chiarezza conoscitiva circa la situazione particolare.
Al di là di queste chiarificazioni, un paragrafo (il n. 53) della lettera enciclica del beato Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, sembra proprio rispondere al nostro tema: «La grande sensibilità che l'uomo contemporaneo testimonia per la storicità e per la cultura conduce taluni a dubitare dell'immutabilità della stessa legge naturale, e quindi dell'esistenza di “norme oggettive di moralità” valide per tutti gli uomini del presente e del futuro, come già per quelli del passato: è mai possibile affermare come valide universalmente per tutti e sempre permanenti certe determinazioni razionali stabilite nel passato, quando si ignorava il progresso che l'umanità avrebbe fatto successivamente? Non si può negare che l'uomo si dà sempre in una cultura particolare, ma pure non si può negare che l'uomo non si esaurisce in questa stessa cultura. Del resto, il progresso stesso delle culture dimostra che nell'uomo esiste qualcosa che trascende le culture. Questo “qualcosa” è precisamente la natura dell'uomo: proprio questa natura è la misura della cultura ed è la condizione perché l'uomo non sia prigioniero di nessuna delle sue culture, ma affermi la sua dignità personale nel vivere conformemente alla verità profonda del suo essere. Mettere in discussione gli elementi strutturali permanenti dell'uomo, connessi anche con la stessa dimensione corporea, non solo sarebbe in conflitto con l'esperienza comune, ma renderebbe incomprensibile il riferimento che Gesù ha fatto al «principio», proprio là dove il contesto sociale e culturale del tempo aveva deformato il senso originario e il ruolo di alcune norme morali (cf. Mt 19,1-9). In tal senso “la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli”. È lui il “Principio” che, avendo assunto la natura umana, la illumina definitivamente nei suoi elementi costitutivi e nel suo dinamismo di carità verso Dio e il prossimo. Certamente occorre cercare e trovare delle norme morali universali e permanenti la formulazione più adeguata ai diversi contesti culturali, più capace di esprimerne incessantemente l'attualità storica, di farne comprendere e interpretare autenticamente la verità. Questa verità della legge morale – come quella del “deposito della fede” – si dispiega attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano valide nella loro sostanza, ma devono essere precisate e determinate “eodem sensu eademque sententia” secondo le circostanze storiche dal Magistero della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di lettura e di formulazione proprio della ragione dei credenti e della riflessione teologica».
Le premesse vaghe e ambigue da cui siamo partiti conducono, senza però dirlo esplicitamente, verso soluzioni altrettanto vaghe circa questioni di morale sessuale.
Noto solo un particolare stridente. Mentre il nostro Autore parla di una «nuova rigidità» del magistero della Chiesa, cioè «un magistero morale con rigorose normative su specifici comportamenti», primo esempio sarebbe a suo dire la Casti connubi di Pio XI (così in La legge naturale: strumento necessario e urgente ma difficile da maneggiare, in Rivista di teologia morale, 2008, p. 335). Lo stesso Autore accetta come «certezza scientifica» il fatto che «la condizione omosessuale è stata ufficialmente tolta dall’elenco delle psicopatologie» (in Omosessualità, un tema da ristudiare, in Rivista di teologia morale 2010, p. 473). Quando invece è risaputo che nel 1993 l’American Psychiatric Association con una votazione a stretta maggioranza, e senza alcuna evidenza di carattere scientifico, tolse l’omosessualità dalla successiva edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM): e la questione è ancora dibattuta.
Inoltre, il nostro Autore definisce il fenomeno della transessualità come «realtà incontrovertibile e praticamente immutabile» (in Omosessualità, un tema da ristudiare, in Rivista di teologia morale 2010, p. 475). Quando invece sono noti nella letteratura specialistica casi di persone affette da transessualismo che grazie a percorsi terapeutici sono riuscite ad accettare il proprio corpo, e quindi la disforia di genere è cessata.
Quindi, molti affermazioni gratuite e – per esser buoni – discutibili.