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VENEZIA

Il Leone d’Oro premia la grancassa abortista

“Ho quella malattia che in un attimo trasforma una donna in una casalinga”. La “malattia” è la gravidanza e la frase viene pronunciata dalla giovane protagonista del film L’évenement (L’evento), premiato con il Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia. “Guarire”, cioè abortire. Un assist per chi oggi vuole imporre l’aborto come diritto universale.

Cinema e tv 13_09_2021

I critici cinematografici più onesti riconoscono che la vittoria del film della quasi esordiente Audrey Diwan, tratto e adattato dall’omonimo romanzo autobiografico della scrittrice transalpina Annie Ernaux (oggi 81enne), ha costituito una vera sorpresa. Altre erano le pellicole candidate al Leone d’Oro, comprese le belle storie firmate dai nostri Paolo Sorrentino (È stata la mano di Dio) e Mario Martone (Qui rido io). La giuria ha scelto di premiare la quarantenne francese di origini libanesi, al suo secondo lungometraggio, più che per riconosciuti meriti artistici (il racconto è asciutto, intenso, ma in alcune scene fin troppo esplicito e brutale), perché il suo è un film politicamente e culturalmente corretto, assolutamente in linea con la dominante ideologia abortista. Che è tornata a rialzare la testa in modo ossessivo, anche se l’interruzione volontaria di gravidanza non è più considerata un reato quasi ovunque.

Qual è la novità? Si vuole trasformare l’aborto da “dolorosa necessità” (come si diceva ipocritamente un tempo) in un diritto che deve essere universalmente riconosciuto. A tutti i costi. Senza se e senza ma. Gettata la maschera, non c’è più spazio per aiutare e accompagnare  le donne che si trovano di fronte a una gravidanza indesiderata, magari per motivi economici, in un modo diverso dalla soppressione della vita che portano in grembo. Ecco. Il grande assente rimane, come sempre, il nascituro, la creatura più indifesa. Con il suo sacrosanto diritto a venire al mondo. Conta solo la libertà della donna di “decidere del proprio corpo e del proprio futuro”, per “non rinunciare ai suoi sogni”. Questo il leitmotiv di L’évenement, che uscirà nelle sale italiane nel mese di ottobre con il titolo 12 settimane. Insomma una pellicola, definita “una storia che lascia senza fiato”, che fa comodo. E funziona alla perfezione per una certa aggressiva propaganda superabortista: è come se il Leone d’Oro l’avesse vinto Planned Parenthood, l’associazione che è la centrale mondiale della “fabbrica degli angeli”.

Il film è la descrizione cruda e minuziosa della tormentata vicenda personale di Anne (Annie Arnaux). Brillante studentessa universitaria di letteratura, a 23 anni rimane incinta. Siamo nel 1963, in Francia l’aborto volontario è ancora illegale (non lo sarà più dal 1975, quando verrà depenalizzato) e quindi la ragazza, di estrazione proletaria e decisa ad emergere nella società, deve scegliere: o un figlio non voluto o l’aborto clandestino. Non ha dubbi, non può permettersi una grama e banale esistenza da mamma casalinga e ha ben altre ambizioni nella vita. Quindi opta per l’aborto, con tutte le difficoltà e i pericoli che comporta: deve farlo di nascosto e senza rischiare di incrociare una mammana. Ma è determinata ad andare fino in fondo, perché si sente appunto privata della “libertà di decidere del proprio corpo”. Non si pone problemi di coscienza, le importa solo disfarsi di quell’ingombrante e inatteso fardello, in una società  che avverte esserle ostile, oscurantista e maschilista. A prevalere alla fine, come è stato scritto in una critica entusiasta al film, “è il corpo finalmente liberato di una donna”.

“Non è un film sull’aborto, ma sulla libertà delle donne”, ha confermato la stessa Audrey Diwan. Riconoscendo così la finalità prettamente ideologica della pellicola da lei scritta e diretta. “Da giovane ho dovuto abortire”, ha spiegato la regista rivelando con sincerità un aspetto del suo vissuto, “ma l’ho potuto fare legalmente, in ospedale, in tutta sicurezza, senza rischiare la vita. Alle generazioni precedenti questo non era possibile e ancora oggi non lo è in Paesi come ad esempio la Polonia. Un tema così è molto urgente”. Secondo lei, “tanti diritti acquisiti negli ultimi decenni dall’universo femminile sono di nuovo messi in pericolo” e questo è “un modo di togliere potere alle donne, privarle di diritti fa parte di una guerra di potere con gli uomini”. Un’argomentazione nel più puro stile femminista, che non aiuta certo a guardare il dramma dell’aborto (perché tale rimane, oggi come ieri) in modo equilibrato e attento ai diritti di tutti gli attori in gioco (le donne, ma anche i bambini concepiti e, perché no?, i padri).

Costanza Miriano, scrittrice e blogger cattolica, con il suo abituale stile pungente e ironico, ha commentato la decisione della giuria di Venezia in modo lapidario. Dopo aver dato per scontato che, nel clima culturale ormai egemone in cui purtroppo  viviamo, vincesse una pellicola del genere, ha precisato: “Che questo film venga osannato da tutti i mezzi di comunicazione è noiosamente prevedibile, ma che venga definito coraggioso è sinceramente ridicolo”. Perché “non c’è un tema sul quale il pensiero unico sia più uniforme, appiattito, monotono”. Ed è “puro umorismo surreale” ritenerlo, come qualcuno ha fatto, realizzato “con il cuore, le viscere, la testa per rompere il silenzio sul tema dell’aborto”. In realtà il silenzio, anzi la vera e propria censura, andrebbero squarciati sulla strage degli innocenti che viene compiuta ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Nel 2020 il Leone d’Oro fu attribuito allo splendido Nomadland di Chloé Zhao, un autentico inno alla speranza. Nel film vincitore di quest’anno di speranza non c’è alcuna traccia.