OLOCAUSTO
Il Karski di Haenel: gli ebrei si potevano salvare
Come narrare la Shoa in un romanzo irto di realtà scomode e finire sulla graticola del politicamente corretto
Cultura
31_12_2010

Come un'Odissea dei tempi moderni, un viaggio nella memoria dell’oppressione perfezionata. Al centro un protagonista tra i cortocircuiti della storia: è Jan Karski – cattolico, militare, membro di spicco della Resistenza antinazista in Polonia – Il testimone inascoltato (Guanda, €15,00, pp.163) di Yannick Haenel [nella foto]. Romanzo, "oggetto narrativo" che sta facendo litigare la Francia, perché viola un tabù: avvicina (anche) la Shoa attraverso il racconto, per di più mettendo in scena una figura chiave, realmente esistita, politicamente scorretta e poco amabile agli occhi del secolo: il cattolico che, alla Casa Bianca, nel 1942, urlava in faccia a Roosevelt – ricambiato da un sostanziale disinteresse - l’enormità della Sterminio di massa.
Lo aveva visto con i suoi occhi, Karski: in clandestinità, accompagnato da due uomini del Ghetto di Varsavia, si era introdotto nel cuore della segregazione e a occhio nudo si era scontrato con la fame, il dolore lancinante, la morte per inedia, l’azzeramento di ogni pietas. Raccontò poi tutto alle cancellerie alleate, ma non venne tenuto in considerazione.
Ora, come si spiega una vicenda così enorme? Chi era questo messaggero del dolore, perennemente inascoltato, per cui la storia non ha avuto riguardo?
Se volete vederlo lo trovate in Shoa di Claude Lanzmann, lo storico direttore di Les Temps Modernes, il cui nome resterà legato al documentario di nove ore che, attraverso le testimonianze delle vittime dei campi di sterminio, tenta di abbozzare le dimensioni del Male. Karski lì spiega a fatica, con i suoi occhi liquidi, alto, magro, un elegante completo grigioazzurro. Proprio la sua testimonianza nel documentario – tagliata – è stata di recente al centro di polemiche feroci. L’ipotesi narrativa di Haenel ci racconta invece in tre parti il personaggio: le prime due fanno i conti con le avventurose vicende di Karski nel Ghetto e poi nella Resistenza. La terza, una vera e propria esplosione narrativa, è un sublime gesto d’invenzione e, con la forza della letteratura, mette in scena i trent’anni di silenzio – la notte bianca, l’insonnia perpetua - che hanno avvolto il protagonista dopo la guerra.
Se volete vederlo lo trovate in Shoa di Claude Lanzmann, lo storico direttore di Les Temps Modernes, il cui nome resterà legato al documentario di nove ore che, attraverso le testimonianze delle vittime dei campi di sterminio, tenta di abbozzare le dimensioni del Male. Karski lì spiega a fatica, con i suoi occhi liquidi, alto, magro, un elegante completo grigioazzurro. Proprio la sua testimonianza nel documentario – tagliata – è stata di recente al centro di polemiche feroci. L’ipotesi narrativa di Haenel ci racconta invece in tre parti il personaggio: le prime due fanno i conti con le avventurose vicende di Karski nel Ghetto e poi nella Resistenza. La terza, una vera e propria esplosione narrativa, è un sublime gesto d’invenzione e, con la forza della letteratura, mette in scena i trent’anni di silenzio – la notte bianca, l’insonnia perpetua - che hanno avvolto il protagonista dopo la guerra.
Haenel, partiamo dalle polemiche: a Claude Lanzmann, che ha fatto conoscere Karski al mondo intero, il suo libro non è piaciuto: l’ha accusata di falsificazione.
Le sue accuse sono aberranti. Lanzmann ha agito per interesse personale. È interessato a far passare l’idea che solo lui possieda la verità su Jan Karski: vuole trattenerlo prigioniero del suo film. D’altra parte è il solo discorso che può tollerare, per Lanzmann esiste solo ed esclusivamente Shoa, tutto il resto lui lo disprezza. Gli piacerebbe che, sul tema, si fossero espressi solo lui e il suo film. Ma tempo è trascorso, non siamo più nel 1985.
Le sue accuse sono aberranti. Lanzmann ha agito per interesse personale. È interessato a far passare l’idea che solo lui possieda la verità su Jan Karski: vuole trattenerlo prigioniero del suo film. D’altra parte è il solo discorso che può tollerare, per Lanzmann esiste solo ed esclusivamente Shoa, tutto il resto lui lo disprezza. Gli piacerebbe che, sul tema, si fossero espressi solo lui e il suo film. Ma tempo è trascorso, non siamo più nel 1985.
La scelta di usare la narrativa però è audace.
La vita di Karski non si riduce a quello che Lanzmann ha mostrato nel film. Al contrario, egli è un uomo di segreti, non ha detto "la" verità a Lanzmann. Ci sono "delle verità" di Jan Karski. Bisogna documentarsi su di lui: il suo modo di vivere la clandestinità, la sua furbizia nei confronti delle parole, la sua abitudine a modificare i racconti a seconda del suo interlocutore lo spiegano: Karski è magnificamente multiplo, in una parola è romanzesco. Coloro che pensano di conoscerlo veramente hanno la vista corta.
La vita di Karski non si riduce a quello che Lanzmann ha mostrato nel film. Al contrario, egli è un uomo di segreti, non ha detto "la" verità a Lanzmann. Ci sono "delle verità" di Jan Karski. Bisogna documentarsi su di lui: il suo modo di vivere la clandestinità, la sua furbizia nei confronti delle parole, la sua abitudine a modificare i racconti a seconda del suo interlocutore lo spiegano: Karski è magnificamente multiplo, in una parola è romanzesco. Coloro che pensano di conoscerlo veramente hanno la vista corta.
Sulle falsificazioni?
Lanzmann capisce poco di narrativa: per lui la fiction è ciò che racconta il falso! Io penso al contrario che il romanzo sia una forma di conoscenza. Un modo di porre domande. Che, tornando a Karski, è assolutamente necessario: perché tutta una parte della sua vita resta misteriosa. Non si possono fare altro che ipotesi su ciò che lui pensava e su come viveva. Per questo la terza parte del mio libro è scritta come una suggestione. Lo rivendico nella nota preliminare al libro: la fiction è un’esperienza produttrice di ipotesi.
Lanzmann capisce poco di narrativa: per lui la fiction è ciò che racconta il falso! Io penso al contrario che il romanzo sia una forma di conoscenza. Un modo di porre domande. Che, tornando a Karski, è assolutamente necessario: perché tutta una parte della sua vita resta misteriosa. Non si possono fare altro che ipotesi su ciò che lui pensava e su come viveva. Per questo la terza parte del mio libro è scritta come una suggestione. Lo rivendico nella nota preliminare al libro: la fiction è un’esperienza produttrice di ipotesi.
Su un personaggio del genere, però, prima del romanzo la storia deve dire una parola importante.
Lo sanno tutti, tanto in Francia quanto in Polonia: è Lanzmann che ha falsificato l’immagine di Karski censurando il racconto della sua missione presso gli Alleati. Il problema è tutto politico: Lanzmann non vuole ammettere che il mondo occidentale avrebbe potuto salvare gli ebrei d’Europa; non vuole, per ideologia, che si attacchi la politica americana. Al contrario si vuole far credere che la mia visione di Karski sia una bugia, che sia scandalosa. Ma Karski ha veramente pensato che gli Alleati avessero abbandonato gli ebrei d’Europa. Egli l’ha anche scritto, nell’86, nella rivista Esprit: «I governi alleati che, soli, avevano i mezzi di venire in aiuto agli Ebrei li hanno abbandonati alla loro sorte».
Lo sanno tutti, tanto in Francia quanto in Polonia: è Lanzmann che ha falsificato l’immagine di Karski censurando il racconto della sua missione presso gli Alleati. Il problema è tutto politico: Lanzmann non vuole ammettere che il mondo occidentale avrebbe potuto salvare gli ebrei d’Europa; non vuole, per ideologia, che si attacchi la politica americana. Al contrario si vuole far credere che la mia visione di Karski sia una bugia, che sia scandalosa. Ma Karski ha veramente pensato che gli Alleati avessero abbandonato gli ebrei d’Europa. Egli l’ha anche scritto, nell’86, nella rivista Esprit: «I governi alleati che, soli, avevano i mezzi di venire in aiuto agli Ebrei li hanno abbandonati alla loro sorte».
Approfondiamo la sua scelta di utilizzare il genere narrativo per avvicinare questo personaggio.
Dopo la guerra Jan Karski ha taciuto per trent’anni. A quel punto la sua vita è scappata di mano agli storici. E’ questo silenzio che mi ha interessato. Non può esistere alcuna documentazione sul silenzio di un uomo: da qui la scelta della letteratura. Mi sono inventato una fiction per far capire quello che, nella vita di Jan Karski, sfugge alla Storia: i suoi pensieri, la sua sofferenza, la sua metamorfosi spirituale.
Dopo la guerra Jan Karski ha taciuto per trent’anni. A quel punto la sua vita è scappata di mano agli storici. E’ questo silenzio che mi ha interessato. Non può esistere alcuna documentazione sul silenzio di un uomo: da qui la scelta della letteratura. Mi sono inventato una fiction per far capire quello che, nella vita di Jan Karski, sfugge alla Storia: i suoi pensieri, la sua sofferenza, la sua metamorfosi spirituale.
Perché il libro è diviso in tre parti?
Ho adottato questo dispositivo per scrupolo. I primi due capitoli si basano sui documenti: non potevo muovermi senza fare i conti con la testimonianza di Jan Karski rilasciata a Claude Lanzmann o con le memorie di guerra del mio protagonista. Non ho inteso assolutamente ammorbidire queste informazioni con elementi romanzeschi. Nello stesso tempo, però –e veniamo così alla terza sezione- quello che mi interessava era immaginare la vita di Karski dopo il 1945.
Ho adottato questo dispositivo per scrupolo. I primi due capitoli si basano sui documenti: non potevo muovermi senza fare i conti con la testimonianza di Jan Karski rilasciata a Claude Lanzmann o con le memorie di guerra del mio protagonista. Non ho inteso assolutamente ammorbidire queste informazioni con elementi romanzeschi. Nello stesso tempo, però –e veniamo così alla terza sezione- quello che mi interessava era immaginare la vita di Karski dopo il 1945.
All’inizio della sua gestazione il libro aveva già questa triplice struttura?
All’inizio avevo in mente una sorta di monologo indirizzato ai morti. La mia idea era che Jan Karski, ogni notte, tornasse a recitare il messaggio che i due uomini del ghetto di Varsavia gli affidarono nel ’42. E che la sua fedeltà a quel messaggio si incarnasse in una perenne notte bianca. Ho trascorso molti anni a trovare il giusto registro: che, ai miei occhi, è poi quello definitivo: la separazione del documentario dalla fiction; così le prese di posizione di Karski sono rigorosamente rispettate. E il lettore, quando arriva infine all’esplosione narrativa del libro, quando entra nella notte bianca della fiction, ha tutti gli elementi storici a sua disposizione: è libero di farsi da solo un’idea di Karski stesso.
All’inizio avevo in mente una sorta di monologo indirizzato ai morti. La mia idea era che Jan Karski, ogni notte, tornasse a recitare il messaggio che i due uomini del ghetto di Varsavia gli affidarono nel ’42. E che la sua fedeltà a quel messaggio si incarnasse in una perenne notte bianca. Ho trascorso molti anni a trovare il giusto registro: che, ai miei occhi, è poi quello definitivo: la separazione del documentario dalla fiction; così le prese di posizione di Karski sono rigorosamente rispettate. E il lettore, quando arriva infine all’esplosione narrativa del libro, quando entra nella notte bianca della fiction, ha tutti gli elementi storici a sua disposizione: è libero di farsi da solo un’idea di Karski stesso.
Di lui mi colpisce soprattutto la vocazione a essere contro: è un cattolico fervente, è amico degli ebrei, combatte quell’antisemitismo da cancelleria diplomatica di cui non si parla volentieri..
Jan Karski resiste per tutta la vita. Direi addirittura che la sua reale resistenza comincia a guerra finita. E’ uno che non può stare a quei compromessi su cui poggia l’ordine mondiale alla fine della guerra. Ma la sua resistenza è segreta: è spirituale. C’è un’infinita nobiltà nell’impegnare così interamente la propria solitudine: a schiudere la propria a memoria al nome degli Ebrei d’Europa sterminati. A non dormire più. In definitiva a non essere altro che un ricordo. A vegliare su un messaggio che non si è potuto trasmettere perché nessuno l’ha voluto ascoltare.
Jan Karski resiste per tutta la vita. Direi addirittura che la sua reale resistenza comincia a guerra finita. E’ uno che non può stare a quei compromessi su cui poggia l’ordine mondiale alla fine della guerra. Ma la sua resistenza è segreta: è spirituale. C’è un’infinita nobiltà nell’impegnare così interamente la propria solitudine: a schiudere la propria a memoria al nome degli Ebrei d’Europa sterminati. A non dormire più. In definitiva a non essere altro che un ricordo. A vegliare su un messaggio che non si è potuto trasmettere perché nessuno l’ha voluto ascoltare.
In effetti, a vederla così, i confini narrativi si dilatano.
Ho immaginato che Karski patisse nella sua vita la morte di Dio: che egli vivesse, nel centro della sua depressione, una lotta incessante tra Dio e lo Sterminio, che la sua notte bianca fosse il luogo di questo scontro titanico. Io chiamo senz’altro resistente qualcuno che storicamente si è battuto contro l’oppressione; ma spiritualmente lo è anche colui che non appartiene in fondo ad alcuno schieramento, che non si soddisfa con nessuna soluzione politica. Jan Karski è fedele per tutta la sua vita a questa ferita che ha aperto in lui la questione del male: per me incarna questa follia e questa saggezza.
Ho immaginato che Karski patisse nella sua vita la morte di Dio: che egli vivesse, nel centro della sua depressione, una lotta incessante tra Dio e lo Sterminio, che la sua notte bianca fosse il luogo di questo scontro titanico. Io chiamo senz’altro resistente qualcuno che storicamente si è battuto contro l’oppressione; ma spiritualmente lo è anche colui che non appartiene in fondo ad alcuno schieramento, che non si soddisfa con nessuna soluzione politica. Jan Karski è fedele per tutta la sua vita a questa ferita che ha aperto in lui la questione del male: per me incarna questa follia e questa saggezza.
In fondo lontano dalla politica, il suo libro, pure, sembra aprire a nuove piste per l’indagine storiografica, soprattutto relative agli errori degli USA e dell’Inghilterra...
La passività degli Alleati di fronte allo sterminio degli Ebrei è conosciuta. È stata stabilita dagli storici. Io ho molto apprezzato il libro di Wyman, The Abandonment of the Jews: America and the Holocaust, 1941-1945 con la prefazione di Wiesel.
Non si tratta in alcun modo di ridurre la colpevolezza dei nazisti. Io mostro, attraverso l’esperienza di cui è vittima Karski, che gli Alleati non sono innocenti. E che, oggi, se si tenta di farlo credere, è per interesse. Gli Inglesi e gli Americani si sono macchiati di una colpa maggiore rispetto a quella di tacere: hanno deciso di non accogliere i rifugiati ebrei. E’ questa chiusura che ha condannato a morte gli Ebrei d’Europa. Che lo si voglia o no Karski è stato un testimone di tutto questo.
La passività degli Alleati di fronte allo sterminio degli Ebrei è conosciuta. È stata stabilita dagli storici. Io ho molto apprezzato il libro di Wyman, The Abandonment of the Jews: America and the Holocaust, 1941-1945 con la prefazione di Wiesel.
Non si tratta in alcun modo di ridurre la colpevolezza dei nazisti. Io mostro, attraverso l’esperienza di cui è vittima Karski, che gli Alleati non sono innocenti. E che, oggi, se si tenta di farlo credere, è per interesse. Gli Inglesi e gli Americani si sono macchiati di una colpa maggiore rispetto a quella di tacere: hanno deciso di non accogliere i rifugiati ebrei. E’ questa chiusura che ha condannato a morte gli Ebrei d’Europa. Che lo si voglia o no Karski è stato un testimone di tutto questo.
In che modo, in definitiva, può essere politica la storia del suo protagonista?
Un romanzo, per me, è uno spazio in cui i valori, le credenze, le ideologie si rimettono in questione. In questo senso Il testimone inascoltato è un libro politico. Per certi versi è anche un libro violentemente anti-politico: attraverso l’itinerario di Karski esso manifesta il rigetto dei compromessi che caratterizzarono le decisioni nazionali e internazionali dopo la seconda Guerra mondiale. Nella mia lettura, Karski è il dissidente assoluto. «Polacco», nel mio libro, significa il totalmente minoritario.
Quelle che un romanzo mette in scena, è, come hanno detto due grandi scrittori , la possibilità di uscire dall’incubo della Storia e di fare un salto al di fuori dalla schiera degli assassini
Un romanzo, per me, è uno spazio in cui i valori, le credenze, le ideologie si rimettono in questione. In questo senso Il testimone inascoltato è un libro politico. Per certi versi è anche un libro violentemente anti-politico: attraverso l’itinerario di Karski esso manifesta il rigetto dei compromessi che caratterizzarono le decisioni nazionali e internazionali dopo la seconda Guerra mondiale. Nella mia lettura, Karski è il dissidente assoluto. «Polacco», nel mio libro, significa il totalmente minoritario.
Quelle che un romanzo mette in scena, è, come hanno detto due grandi scrittori , la possibilità di uscire dall’incubo della Storia e di fare un salto al di fuori dalla schiera degli assassini