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L’INTERVISTA

«Il gregoriano modello per la liturgia? Sì, perché diretto a Dio»

«Oggi c’è un’incomprensione riguardo all’importanza straordinaria che musica e liturgia devono avere nella vita del cristiano». «Il Concilio ha espressamente richiamato il ruolo del canto gregoriano, della polifonia, dell’organo, del latino» e quindi «le derive della musica liturgica verso la musica pop non si giustificano in nessun modo». La Nuova BQ intervista il maestro Aurelio Porfiri, autore di «Messa a punto», un libro sul legame tra liturgia e musica.

Ecclesia 25_10_2019

Sappiamo come la liturgia sia sempre stata un tema caldo della stagione postconciliare. E di conseguenza anche la musica liturgica si è trovata invischiata in infinite polemiche che l’hanno risucchiata in un gorgo senza fine.

Aurelio Porfiri è musicista di Chiesa ormai da quasi 40 anni. Autore di più di 45 libri, svariate centinaia di articoli, migliaia di composizioni (in maggioranza per la liturgia), ha cercato di lavorare anche perché nella nuova liturgia ci fosse quella dignità della musica che il Concilio Vaticano II aveva richiesto. Porfiri, collaboratore di questo quotidiano, è autore anche di una storia della musica sacra cattolica commissionatagli da un centro di ricerca cattolico presso un’università di Hong Kong, che sta per uscire in cinese (e poi uscirà in inglese) e anche di un recente libro in italiano, «Messa a punto. Viaggio intorno alla forma ordinaria del rito romano» (Chorabooks 2019). Prendendo spunto da questo testo, la Nuova Bussola lo ha intervistato.

Maestro Porfiri, come mai un libro sulla musica liturgica nella forma ordinaria del rito romano?
Innanzitutto, questa non è per me una novità perché ho pubblicato svariati libri su questo tema. Poi vorrei precisare che il libro è su musica e liturgia, in quanto le due sono connesse in modo inscindibile. Uso uno stile “frizzante” per cercare di dire delle cose importanti sulla liturgia e sulla sua musica, su come oggi ci sia un impoverimento e un’incomprensione riguardo all’importanza straordinaria che musica e liturgia devono avere nella vita del cristiano. La musica è una risorsa enorme, ma può anche essere un ostacolo se non usata propriamente, e di questo erano consapevoli i Padri della Chiesa, con certe riflessioni importanti che culminano nel pensiero di Sant’Agostino.

Ma alcuni si appellano al Concilio per giustificare l’introduzione di stili musicali vicini alla musica commerciale...
Questa è una mistificazione. Il Concilio ha chiaramente ed espressamente richiamato il ruolo del canto gregoriano, della polifonia, dell’organo, del latino. Non esiste un passaggio in cui si giustifica l’impiego di musica che non sia adeguata a una celebrazione liturgica solo per compiacere certi gruppi. Il Concilio ha ripreso i grandi documenti di Pio X (motu proprio del 1903, Tra le sollecitudini) e dei Papi successivi, specialmente Pio XII che molto scrisse, e bene, su musica e liturgia. Le derive della musica liturgica verso la musica pop non si giustificano in nessun modo. Quello che il Concilio aveva chiesto era di favorire una maggior partecipazione anche attraverso uno spazio maggiore concesso alla lingua vernacolare. Da questo alla musica commerciale c’è una distanza enorme. Questo non significa che non bisogna comprendere la cultura moderna e come la gran parte dei cattolici si relaziona con il mondo circostante. Ma c’è una salutare distanza tra comprendere e accettare, e questa distanza dovrebbe essere sempre salvaguardata.

Allora si deve cantare solo in canto gregoriano?
Il canto gregoriano è il modello. Questo significa che chi si dedica alla musica per la liturgia deve essere ben consapevole e formato in questo modello, in modo da poter sviluppare un gusto che gli permetta di giudicare quando una musica è adeguata per la liturgia e quando non lo è, anche nelle lingue vernacolati. E non dimentichiamo che il fatto che il canto gregoriano dovesse comunque essere parte della liturgia rinnovata non era una pretesa di musicisti strenuamente conservatori, ma fu un desiderio del santo pontefice Paolo VI, che volle nel 1974 un libricino chiamato «Iubilate Deo» (preparato poi dalla Congregazione per il Culto Divino) che conteneva un repertorio base di canti gregoriani per il popolo. Si dovrebbe ricordare questo. Solo chi è ben formato nella grande tradizione musicale della Chiesa può innovare con gusto, proprietà e dignità. Gli altri, non avendo modelli, rincorrono le mode.

Alcuni denunciano una perdita del senso dell’adorazione...
Ne parlo in questo mio libro, «Messa a punto», come ho fatto in altri. Non dimentichiamo che il 22 novembre 2013, non a caso festa di Santa Cecilia, protettrice della musica, Papa Francesco ha fatto delle osservazioni importanti nella sua omelia per la Messa quotidiana in Santa Marta, cosi riferite dall’Osservatore Romano:

«Riconsacrare il tempio perché lì sia data gloria a Dio» è perciò il senso essenziale del gesto di Giuda Maccabeo, proprio perché «il tempio è il luogo dove la comunità va a pregare, a lodare il Signore, a rendere grazie, ma soprattutto ad adorare». Infatti «nel tempio si adora il Signore. Questo è il punto più importante» ha ribadito il Papa. E questa verità vale per ogni tempio e per ogni cerimonia liturgica, dove ciò che «è più importante è l’adorazione» e non «i canti e i riti», per quanto belli. «Tutta la comunità riunita - ha spiegato - guarda l’altare dove si celebra il sacrificio e adora. Ma io credo, umilmente lo dico, che noi cristiani forse abbiamo perso un po’ il senso dell’adorazione. E pensiamo: andiamo al tempio, ci raduniamo come fratelli, ed è buono, è bello. Ma il centro è lì dov’è Dio. E noi adoriamo Dio».

Il senso di questo testo è che non basta fare una musica che sia bella perché essa sia liturgica, essa deve essere liturgica per essere bella nel senso spirituale. Ecco perché abbiamo perso il senso dell’adorazione, perché spesso si insegue il piacere personale piuttosto che piacere a Dio. Io dico sempre che non perché amo il canto gregoriano allora lo voglio come musica liturgica, ma proprio perché è un esempio sommo di musica liturgica amo il canto gregoriano. Le cose non si amano in sé ma per quello a cui sono dirette.