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L'ANNIVERSARIO

Il giudice demiurgo ora detta l'agenda etica A 25 anni da Tangentopoli, ecco cosa resta

25 anni fa il via a Tangentopoli. Ma oggi che cosa resta di quella stagione drammatica? La corruzione è la stessa. Quello che è aumentato è lo strapotere dei giudici perché la politica ha abdicato in favore dei poteri forti e si ritrova in balia di una magistratura onnipotente. Le toghe fanno selezione politica, dettano l’agenda al Parlamento, tengono sotto scacco le amministrazioni e come demiurghi, decidono su temi etico-sensibili che toccano l’essenza dell’esistenza. Una magistrocrazia che ancora oggi ci danneggia, il cui potere andrebbe riportato nell'alveo che le assegnò la Costituzione. 

 

-LA PROFEZIA DI GIUSSANI SUL GIUSTIZIALISMO 

Politica 17_02_2017
Di Pietro, Colombo e Borrelli a Milano accolti come star

Il 17 febbraio 1992, Pio Albergo Trivulzio, periferia sud-ovest di Milano. Un ufficiale dei Carabinieri fa irruzione nella storica casa di cura e stringe le manette ai polsi al suo presidente, l’esponente del Partito Socialista Italiano, Mario Chiesa, colto in flagranza di reato mentre intasca da parte di un piccolo imprenditore monzese una mazzetta di 7 milioni di vecchie lire. Finito l’arresto, l’ufficiale telefona in Procura: «Dottore, ce l’abbiamo fatta». Dall’altra parte del filo c’è un giovane e ambizioso pubblico ministero. Il suo nome è Antonio Di Pietro.

Iniziano così i fotogrammi di quella lunghissima e travagliata stagione politico-giudiziaria ribattezzata Tangentopoli, che esattamente 25 anni fa scardinò e polverizzò la Prima Repubblica e si intrecciò con indagini di mafia, risvolti oscuri, depistaggi e con quella crisi economica che culminò con il governo Amato, spinto a prelevare forzatamente il 6 per mille da tutti i conti correnti degli italiani. 

«E’ solo un mariuolo», tentò di minimizzare Bettino Craxi. Chiesa, però, non era affatto un ladruncolo isolato – come voleva far credere il segretario del Partito Socialista – ma parte di un sistema strutturato e perfettamente collaudato negli anni, che coinvolgeva tutti i partiti politici, nessuno escluso. 

E così ben presto l’inchiesta, condotta appunto da Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Gherardo Colombo– quello che verrà ribattezzato dai cronisti “il pool Mani Pulite”- individua regole precise di spartizione dei fondi illeciti. Nel giro di due anni vengono indagate 4.520 persone, risultano coinvolti i vertici del mondo imprenditoriale e politico del momento e un’intera classe dirigente viene spazzata via. La Democrazia cristiana, il Partito Socialista e le forze minori del cosiddetto pentapartito risulteranno decapitate. Gli unici a sopravvivere saranno quegli esponenti politici e quegli imprenditori che si schiereranno con la sinistra,  per non essere “pizzicati” dalla magistratura, particolarmente “strabica” in quegli anni.

Il penitenziario San Vittore, fra carcerazioni preventive, interrogatori eccellenti e drammatici suicidi, incarnerà il simbolo delle notti più buie della Prima Repubblica. 

«Io sono sempre stato al corrente della natura non regolare dei finanziamenti ai partiti e al mio, in particolare», dirà con disarmante schiettezza Bettino Craxi,  interrogato in aula da Antonio Di Pietro durante il processo per la maxi-tangente Enimont.

E oggi, 25 anni dopo, cosa resta di quegli anni? Anzitutto, la triste presa di coscienza che il Paese – purtroppo – non ha saputo fare tesoro di quella lezione. Il problema della corruzione resiste e persiste ancora, ed è diventato, se possibile, ancora più forte. 

I problemi sono gli stessi che ci angustiavano nel 1992: il finanziamento della politica che arriva da canali poco chiari, i partiti che continuano a lottizzare società ed enti pubblici, la gestione dei finanziamenti illeciti che oggi appare dominato da consorterie trasversali, bande che legano gli interessi di politici e imprenditori. E che attirano l’interesse della criminalità organizzata, come ben dimostra l’indagine Mafia Capitale. 

A guardare indietro in questi anni, le inchieste di mala gestio e corruzione sono state moltissime, forse anche più forti di quelle degli anni Novanta: il Mose a Venezia, Expo a Milano, il G8 alla Maddalena, il 150° dell’Unità d’Italia, gli appalti per la ricostruzione dell’Aquila dopo il terremoto del 2009.

Da allora, a livello legislativo e giudiziario, non sono state emanate leggi né create strutture per impedire che le tangenti tornassero a dilagare. Anzi, sono stati introdotti provvedimenti che invece di rendere più giusti i processi hanno ingolfato la macchina della Giustizia, provocando la dissoluzione di migliaia di inchieste per effetto della prescrizione. L’esasperante burocratizzazione delle procedure ha fatto il resto. E a poco servono Autorità anticorruzione o istituzioni alle quali tentare di affidare improbabili missioni salvifiche.

«E’ drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale», ha detto di recente Piercamillo Davigo, oggi al vertice della Associazione Nazionale Magistrati. 

E Tangentopoli è stata anche soprattutto l’era in cui la spettacolarizzazione dei processi – i cosiddetti processi mediatici – ha avuto inizio. I pubblici ministeri nell’immaginario collettivo rivestivano il ruolo di superstar o, peggio ancora, di giustizieri. Un’ondata di giustizialismo che toccò il suo apice quando il popolarissimo settimanale per le famiglie Tv “Sorrisi e Canzoni” (edito da Mondadori e quindi da Silvio Berlusconi) titolò in copertina «Di Pietro, facci sognare!».

Quel presenzialismo delle toghe ancora oggi ci danneggia. E i danni li paghiamo ogni volta che un magistrato, invece di lavorare in silenzio nel rispetto del segreto istruttorio e a tutela degli indagati, rilascia interviste, passa carte riservate ai giornalisti, si lascia andare a confidenze inopportune. E alla fine si fa tentare dalle irresistibili sirene della politica. La storia che si ripete. 

La politica dopo Tangentopoli ha definitivamente abdicato in favore dei poteri forti e si ritrova in balia di una magistratura onnipotente. Non tragga in inganno la presenza di pochissime persone, a Milano, giorni fa, al convegno rievocativo di Mani Pulite. La gente ha sicuramente meno fiducia nei giudici rispetto a 25 anni fa, ma la cosiddetta “magistratocrazia” è un’amara realtà consolidata.

I giudici oggi fanno selezione politica, dettano l’agenda al Parlamento, tengono sotto scacco figure apicali anche della pubblica amministrazione e, a mo’ di demiurghi, decidono perfino su temi etico-sensibili che toccano l’essenza stessa dell’esistenza. Basti pensare al succedersi, negli ultimi anni, di pronunce a dir poco discutibili, in materia di tutela della vita, della famiglia o rispetto al tema delle adozioni. 

 

Affinchè possa davvero risultare costruttivo il ricordo di Tangentopoli, occorrerebbe prendere finalmente atto dell’urgenza di riportare il potere giudiziario nell’alveo che gli è naturale, senza più ingerenze e invasioni di campo nella sfera degli altri poteri, che attualmente risultano schiacciati e privi di una loro autonomia. Il che finisce per calpestare anche lo spirito e le intenzioni dei Padri Costituenti.