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IMMIGRAZIONE

Il gioco ambiguo del governo con le Ong del mare

L'ultima tragedia degli emigranti: rimpallo di responsabilità. Secondo la denuncia della Guardia Costiera libica, è stato l'arrivo di una nave della Sea Watch ad aver provocato uno scompiglio letale. Ma la Sea Watch risponde: "ci hanno chiamato gli italiani". A che gioco sta giocando Roma?

Politica 10_11_2017
Salvataggio in mare

Il governo italiano intende davvero fare qualcosa per stroncare i traffici di esseri umani dalla Libia? La domanda torna a essere di drammatica attualità dopo i migranti affogati lunedì scorso durante le operazioni di soccorso a un gommone che stava affondando a 30 miglia dalla costa nordafricana, all’interno della zona di ricerca e soccorso controllata da Tripoli con i mezzi navali della Guardia costiera libica.

Una tragedia in larga misura evitabile in cui una motovedetta libica, che stava soccorrendo i migranti, è stata raggiunta dalla nave della Ong Sea Watch scatenando una gara nel salvataggio il cui esito è decisivo, anche a rischio della vita, per migranti che hanno speso migliaia di euro per inseguire il sogno di raggiungere l’Europa. “Andava tutto bene nell'operazione di recupero fino a quando non è arrivata l'imbarcazione della Sea Watch che ha creato un'enorme confusione e causato la morte di cinque persone, tra cui un bambino“, ha detto a Il Mattino l’ammiraglio Ayub Kasem, comandante della Marina libica. “Quando i migranti hanno visto la nave della Ong si sono tuffati in acqua perché preferiscono essere salvati da loro per essere portati in Europa invece di essere salvati da noi che li riportiamo in Libia”.

Il video, drammatico ed esplicativo di quanto è accaduto, è stato pubblicato dalla Guardia costiera libica che accusa l’Organizzazione non governativa di essere responsabile del disastro e l’ammiraglio libico minaccia di arrestare gli equipaggi delle navi delle Ong “se continueranno a creare problemi”. La Sea Watch afferma di essere stata inviata per i soccorsi dalla centrale operativa della Guardia Costiera italiana accusando curiosamente i libici di non avere giurisdizione al di fuori delle loro acque territoriali. “Dicono bugie perché è vero che eravamo a 30 miglia, ma abbiamo già dichiarato a tutte le istituzioni sovranazionali che la nostra area di ricerca e soccorso (SAR) è stata spostata a 100 miglia. In quella zona siamo noi i primi ad essere autorizzati per effettuare i salvataggi“ sottolinea Kasem.

Quanto all’atteggiamento ambiguo dell’Italia Kasem non usa mezzi termini: “Noi ci muoviamo su input della nostra centrale operativa che è in contatto con Roma, ma perché gli italiani non hanno chiamato noi dovete chiederlo a loro”. Una risposta che ben fotografa l’ambivalenza dell’Italia che da un lato equipaggia, paga e addestra la Guardia costiera libica affinchè riporti indietro i migranti illegali per affidarli alle agenzie dell’Onu che provvederanno ad assisterli e rimpatriarli, ma dall’altro ordina alle navi militari italiane ed europee e alle navi delle ong di sbarcare  in Italia quanti vengono soccorsi dopo essere sfuggiti alle maglie non troppo strette (per carenza di mezzi navali) della Guardia costiera di Tripoli.

Il governo italiano non sembra quindi voler realmente bloccare i flussi dalla Libia (calati del 30% nei primi dieci mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2016), operazione che sarebbe a portata di mano e realizzabile in pochi giorni con un minimo di coerenza, ma solo “governarli”. Termine che ha un significato ambiguo ma che in termini politici ed elettorali è facilmente spiegabile. La maggioranza di governo deve mostrare all’opinione pubblica che ha fatto qualcosa di tangibile contro l’immigrazione illegale, per non continuare a perdere voti, ma non può bloccare del tutto i flussi di migranti illegali per non azzerare il business di Ong, coop e organismi assistenziali che si spartiscono torte da 4/5 miliardi di euro all’anno. Una vera e propria “industria” del soccorso e dell’accoglienza molto vicina al centro-sinistra, che macina denaro pubblico generando consensi e migliaia di posti di lavoro.

Quanto alle sempre più discusse Ong è evidente che la crisi determinata dall’immigrazione illegale investe direttamente la sicurezza nazionale e dovrebbe quindi essere gestita esclusivamente dagli apparati pubblici, militari e di polizia, non da organizzazioni private che hanno interessi diversi o addirittura divergenti da quelli degli Stati. Per chiudere definitivamente la “rotta libica” sarebbe sufficiente vietare l’accesso ai porti nazionali alle navi delle Ong che intendono sbarcare migranti illegali e ordinare alle navi militari italiane ed europee di consegnare alle autorità libiche coloro che vengono soccorsi in mare dopo essere sfuggiti alle motovedette di Tripoli. In questo modo sarebbe chiaro che il destino comune di tutti i migranti illegali è il rimpatrio attraverso i campi profughi libici, senza alcuna possibilità di raggiungere l’Italia e l’Europa. In breve tempo cesserebbero i flussi dal Sahel alla Libia e dalla coste della nostra ex colonia, si azzererebbe il giro d’affari dei trafficanti e cesserebbero i morti in mare e nel deserto libico ripristinando la legalità e forse anche un minimo di credibilità alle compromesse istituzioni italiane.