TRA LE RIGHE
Il Genio del Cristianesimo
Un saggio invita a rileggere l'opera apologetica di Chateaubriand: contro gli illuministi che volevano relegare la religione nell'infanzia dell'umanità lo scrittore francese esalta la bellezza della fede. Un testo che a distanza di secoli mantiene intatta la sua attualità.
Tra le righe
23_07_2011
“Ma è questo il Cristianesimo?” si chiedevano nel 1802 entusiaste dame parigine strappandosi di mano le prime copie de Il Genio del Cristianesimo. L’autore, François-René de Chateaubriand, si sarebbe guadagnato il soprannome di “enchanteur”, incantatore, proprio per la malia benigna gettata sul pubblico con quel riuscito tentativo di apologia della religione cattolica.
Un invito a lasciarsi incantare come le signore ottocentesche e a riconsiderare le virtù apologetiche della sua opera arriva da un recente libro di Giuliano Zanchi, studioso di Estetica, di Teologia e del territorio di confine fra le due discipline: Il Genio e i Lumi, edito da Vita & Pensiero. Zanchi ricorda l’audacia di Chateaubriand nel riabilitare temi oscurati dalle “violente ideologie dell’enciclopedismo più fanatico”, divulgati inoltre con un linguaggio altamente lirico, ben più efficace della teologia ufficiale del tempo, poco comunicativa a causa dei troppi accademismi.
Ma Il Genio del Cristianesimo è ancora di stretta attualità, tanto che, secondo Zanchi, “potrebbe comparire, a puntate, come una sorta di editoriale del Foglio di Giuliano Ferrara”. La voce del poeta francese può insomma echeggiare due secoli dopo e rispondere per le rime ai nipotini di Voltaire. Chateaubriand evocava una religione cattolica non solo utile, fondamento insostituibile del “miglior ordine sociale” ma soprattutto bella. E la bellezza, inscindibile dalla verità, pare giustificare l’esistenza della Chiesa ancor più dell’utilità. Il poeta combatteva contro il proprio tempo rivoluzionario proprio indicando nel fatto cristiano “la matrice stessa delle idealità in nome della quale era stato rifiutato e sfregiato”; ciò che c’era di buono nei motti del 1789 non era altro che cristianesimo corrotto, amputato, impaziente.
Difendeva ed esaltava la “bellezza interna alla struttura sacramentale dogmatica”, le Sacre Scritture come “forma più alta di sapienza guadagnata dall’uomo lungo il corso della storia”, il Decalogo che coincideva perfettamente con la legge morale, la comunione e la confessione (pratiche “più efficaci di un intera legislazione”). Ma a parte l’utile, dicevamo, sottolineava il bello: la liturgia era splendida, come splendidi i suoi strumenti: campane, abiti liturgici, canti e preghiere, feste. La vera arte, in tutte le sue espressioni, era prodotta e compresa esclusivamente dall’”uomo sensibile” esistente solo grazie all’incarnazione divina.
Il Genio del Cristianesimo lanciò in tutta Europa la moda del gotico e la passione per l’epoca delle cattedrali e degli ideali cavallereschi; per il suo autore, durante il Medioevo il Cristianesimo era “visibilmente fiorito”. Allora avevano ragione gli illuministi nel confinare la religione nell’infanzia dell’umanità? Chateaubriand negò questa idea riconsiderando la sua opera in età matura: “invece di evocare i benefici e le istituzioni della nostra religione al passato, ora mostrerei che il cristianesimo è il pensiero dell’avvenire”.
Giuliano Zanchi
Il Genio e i Lumi.
Estetica teologica e umanesimo europeo in François-René de Chateaubriand
Vita & Pensiero, 2011, pagine 356, euro 25.