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Il Forum globale sui rifugiati accusa gli unici che li aiutano

Ennesima delusione dal Forum globale sui rifugiati appena concluso a Ginevra, volto a realizzare gli obiettivi del Patto globale sui rifugiati. Si continua a chiedere ai Paesi occidentali di "fare di più" quando fanno già tanto, mentre non una parola sulla corruzione della stessa Unhcr e sulla mancanza di aiuti dai Paesi direttamente interessati. 

Politica 22_12_2019
Forum Globale sui Rifugiati

Il 17 e 18 dicembre si è svolto a Ginevra il Forum globale sui rifugiati, il primo di una serie di incontri organizzati per realizzare gli obiettivi del Patto globale sui rifugiati che, secondo l’Assemblea delle Nazioni Unite che lo ha sottoscritto il 17 dicembre 2018, rappresenta una pietra miliare, destinata a trasformare radicalmente il modo in cui il mondo affronta il problema.

Si sa che le Nazioni Unite ormai lo dicono di ogni risoluzione, di ogni loro progetto. Tuttavia, leggendo il comunicato articolato in 18 punti diramato alla fine dei lavori dai promotori del Forum di Ginevra – oltre all’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, Costa Rica, Etiopia, Germania, Pakistan e Turchia – non si ha questa impressione. Le centinaia di dichiarazioni di impegno formulate dai 3.000 partecipanti al Forum (tra cui quattro capi di stato, esponenti di 200 organizzazioni non governative e di un centinaio di fondazioni e di altri soggetti privati) sono le stesse di sempre: assistere al meglio i rifugiati in ogni momento, per ogni loro necessità e per tutto il tempo necessario, dalla procedura di identificazione iniziale, quando chiedono asilo in un paese straniero, al rimpatrio, allorché la minaccia che li ha messi in fuga viene meno.

In realtà, non soltanto il Forum non ha prodotto linee guida davvero innovative, delle quali peraltro forse non c’è neanche bisogno, ma sembra piuttosto essere stata una occasione persa di denunciare e affrontare alcuni gravi problemi che minano l’efficacia delle attività dell’Unhcr e dei suoi partner, tutti riconducibili alla corruzione che inquina strutture e uffici preposti all’assistenza dei rifugiati. Alla mercé del personale che li gestisce, molti rifugiati subiscono estorsioni, violenze, ricatti, abusi: dalle richieste di denaro alle prestazioni sessuali per ricevere le razioni alimentari alle quali hanno diritto, per ottenere documenti, per far frequentare la scuola ai figli, per lavorare, per avviare le pratiche per la riallocazione in paesi terzi sicuri… In Sudan, ad esempio, si è scoperto che dei dipendenti Unhcr fanno pagare alle famiglie dei rifugiati da 35mila a 40mila dollari per portare a buon fine le pratiche di trasferimento in altri Stati. Il denaro va a una organizzazione che comprende mediatori e personale Unhcr. Non succede solo in Sudan. Il fenomeno non è neanche recente. Accuse di corruzione ricorrono nel tempo. In Kenya, ad esempio, nel 2001 era stato scoperto un racket che estorceva denaro ai profughi e guadagnava milioni di dollari: dai 25 per essere ammessi in un campo Unhcr locale fino a una cifra che andava da 1.000 a 4mila dollari per la pratica di riallocazione.

Certi governi non sono da meno. L’Uganda nel 2016 è stata indicata dall’Unhcr come il miglior paese al mondo, per accoglienza e condizioni di vita, dove cercare asilo. Poi, all’inizio del 2018, si è scoperto non solo che, ricevuti alcuni attrezzi agricoli, materiali per costruirsi un riparo e le prime razioni di cibo, i rifugiati di solito si devono arrangiare, ma che per ottenere più fondi dall’Unhcr il governo ugandese ha gonfiato il numero dei rifugiati presenti nel paese. Ulteriori accertamenti hanno rivelato frodi – ad esempio, falsi documenti relativi alla consegna mai effettuata di generi alimentari – organizzazioni che praticano la tratta di donne e bambine, destinate alla prostituzione e a matrimoni forzati, addetti che fanno pagare ai rifugiati dei servizi che dovrebbero essere gratuiti. Da un controllo a campione è emerso ad esempio che un campo profughi vicino alla capitale Kampala ospitava 7mila rifugiati mentre ne erano stati dichiarati 26mila. “Che fine fanno il cibo, il denaro e le altre risorse che dovrebbero servire ad assistere i 19mila rifugiati mancanti?” si domandava il quotidiano ugandese Daily Monitor.

Un ispettore dell’Unhcr, Frank Montil, lo dice da anni: tutti sanno di queste pratiche, ma nessuno ne parla. Non se ne è parlato neanche a Ginevra dove in sostanza si è preferito parlare di soldi e rimproverare i paesi sviluppati, come sempre si fa alle Nazioni Unite, di non fare abbastanza mentre quelli a basso reddito, nonostante i loro tanti problemi, si dimostrerebbero generosi in maniera esemplare.

“Nessun paese dovrebbe essere lasciato da solo di fronte a massicci arrivi di rifugiati – aveva dichiarato commentando la nascita del patto globale l’Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi – le crisi dei rifugiati richiedono una condivisione globale delle responsabilità”. La verità è che nessun paese, salvo quelli occidentali, è lasciato solo. Come l’Uganda, altri stati ricevono contributi per accoglierli, e pazienza se li gestiscono male e molto va perduto, sperperato, purché qualcosa si riesca a fare. Quasi il 90% dei fondi di cui dispone l’Unhcr, che per il 2019 ha presentato un preventivo di 8,6 miliardi di dollari, sono coperti da fondi pubblici e privati di paesi occidentali. Dei 4,6 miliardi già versati, 1,7 miliardi provengono dagli Stati Uniti, la Germania figura tra i maggiori donatori con 392 milioni, seguita dalla Svezia con quasi 142 milioni. L’Unione Europea ha dato 477 milioni di dollari (mentre l’Unione Africana ne ha offerti 100mila, meno dei 195mila e dei 220mila offerti dai donatori privati di Singapore e del Liechtestein). La Cina ha donato 2 milioni di dollari, l’Arabia Saudita 30: meno dell’Italia che tra fondi pubblici e privati arriva a 57 milioni. 

Bisogna fare di più, hanno detto al Forum, la responsabilità dei rifugiati va condivisa. La richiesta però andava rivolta a chi dà poco o niente, non a chi dà già tanto.