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CINEMA

Il film non è documentario ma a nessuno importa

Da quando il cinema italiano è nelle mani dei comunisti si producono solo cinepanettoni e "denunce" a senso unico. Spacciandole per storia.

Attualità 05_04_2012
Film

Il film Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana è senz’altro il più discusso e meno visto. Uno strano record, certo, neanche il Titanic di James Cameron ha suscitato sulla stampa un tale dibattito. Pure i telegiornali ci hanno messo del loro, sperando di far rientrare nelle casse statali il contributo per le «opere di interesse culturale nazionale». In effetti, proprio grazie al battage ipertrofico uno, il film, può anche fare a meno di andare a vederlo. Tanto, di che parla ormai lo sa. Bel boomerang, non c’è che dire. Speriamo che Giordana, ma anche De Maria di Prima linea e Vicari di Diaz, d’ora in poi si dedichino a temi meno appassionanti per loro ma molto di più per il pubblico pagante.

In effetti, quando uno legge il sottotitolo di Diaz che annuncia la più grave ferita della storia alla democrazia, e non dell’Italia ma del mondo, sa già che cosa andrà a vedere. La solita “santorata” che i giacobini de noantri fanno coi soldi altrui. Se si andasse a vedere le carte, forse si scoprirebbe che tutti i film «di denuncia» girati e proiettati in questo nostro Paese non hanno brillato al botteghino, così che ci si potrebbe legittimamente chiedere perché diavolo continuino a farne, visto che a malapena rientrano nelle spese. Ma il fatto è un altro.

Da quando le mani sul cinema italiano non sono più quelle della Dc andreottiana e del circuito delle sale parrocchiali ma sono quelle dei comunisti e dei loro simpatizzanti, non abbiamo altro che cinepanettoni e «denuncia» a senso unico. Tanto che c’è chi, come Giorgio Carbone sul quotidiano «Libero» del 3 aprile 2012, sospetta che certi autori tendano a «fare i furbetti» giacchè «i loro film sugli anni di piombo hanno come fine non secondario quello di nascondere ulteriormente nell’armadio gli scheletri che loro, i loro amici, i compagni di partito accumularono nei tempi plumbei». Ma a nostro avviso c’è di più. Come ci disse una volta, a tavola, il famoso regista polacco Zanussi, un’immagine dipinta o scolpita «rimanda» all’originale; ma un’immagine cinematografica «è» l’originale.

In pratica, hanno un bel dire che una fiction non è un documentario: un film storico, nella testa di chi lo guarda, funziona proprio come un documentario. Bella lezione, quella di Zanussi, per i film «religiosi» della Lux Vide. La quale, però, non se ne dà per intesa e continua ad affidare le sue fiction ad autori di scarso o nessuno spessore. Tanto, la gente ne è così affamata che li guarda lo stesso (sarebbero, dunque, un grandissimo strumento per la nuova evangelizzazione, ma siamo costretti ad accontentarci di quel che passa –è il caso di dirlo- il convento).

La lezione di Zanussi, tuttavia, è ben seguita dai «furbetti» di cui parla Carbone, i quali hanno sempre presente anche un’altra grande lezione, quella di Orwell, che pur era rivolta, come monito, ai loro avversari: «Chi controlla il passato controlla il futuro». E il futuro, nel nostro caso, è rappresentato da quanti negli anni di piombo non erano nati o erano troppo piccoli. Raccontare la storia di certi fatti prima che lo faccia qualcun altro è importantissimo ai fini del controllo del passato. Una ulteriore ma diversa versione dello stesso fatto non troverebbe, infatti, finanziamenti; i produttori direbbero: ce n’è stata già una ed è stata un flop. Così, su pellicola rimane la versione di chi ha avuto la prima idea, a futura memoria.

Quel film prima o poi finirà sui canali televisivi, e anche chi non l’ha visto in sala lo vedrà, dal momento che in tivù è gratis (si fa per dire, ma il canone è obbligatorio). «Il cinema è l’arma più forte», parola di dittatore. Ed è dai tempi della Corazzata Potemkin che la storia, al cinema, la fanno sempre gli stessi. Con intenti pedagogici che non provano nemmeno a dissimulare. Temiamo che noi cattolici, quando saremo chiamati al Tribunale Celeste, dovremo rendere conto anche di questa nostra peculiare insipienza.