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l'analisi

Il feticcio di Ventotene e l'europeismo verticistico delle sinistre

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Leggendo alcuni passi illiberali del Manifesto di Ventotene, la Meloni ha toccato uno dei nervi più scoperti della sinistra italiana. Perché ha mostrato impietosamente i limiti di quello che è diventato un "feticcio", un mito politico, dopo il crollo del modello comunista: l'europeismo.

Editoriali 24_03_2025

Leggendo nell'aula di Montecitorio alcuni passi palesemente illiberali del Manifesto di Ventotene redatto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, e dichiarando che «questa non è la nostra Europa», Giorgia Meloni ha toccato veramente uno dei nervi più scoperti e sensibili della sinistra italiana. Perché ha mostrato impietosamente i limiti di quello che negli ultimi decenni è diventato un "feticcio", un mito politico, dopo il crollo del modello comunista: l'europeismo, declinato non tanto come modello di assetto politico-istituzionale, ma come dogma religioso, visione escatologica secolarizzata di una possibile redenzione collettiva. Come sono stati declinati il multiculturalismo, l "dirittismo", l'ambientalismo "gretista". 

Hanno formalmente ragione quanti sostengono, criticando i modi dell'intervento della presidente del Consiglio, che un documento storico come il Manifesto dovrebbe essere adeguatamente contestualizzato per comprenderne il significato e il valore. Ma, appunto, una valutazione storica implica un esame critico, un'analisi che porti a distinguere "ciò che è vivo e cià che è morto" in esso, per dirla con la formula di Benedetto Croce. E questo è esattamente il contrario della mitizzazione che la cultura politica progressista da tempo fa del Manifesto, elevato in blocco a "testo sacro" supremo dell'ideale europeista. Ed è assolutamente incompatibile con l'indignazione, le lacrime, le accuse di "blasfemia", addirittura le richieste di mea culpa rivolte a chi si permette di evidenziare come molte delle idee espresse in quel testo siano in contraddizione con un modello di democrazia liberale fondato sulla limitazione rigorosa del potere, sul pluralismo e sulla sovranità popolare. 

Se si vuole comprendere adeguatamente il Manifesto di Ventotene nel suo contesto storico, allora, va sottolineato innanzitutto che il pronunciamento di Spinelli, Rossi e Colorni non fu né il primo né l'unico programma per la costruzione dell'unità o del federalismo europeo nella sua epoca. Esso si inseriva, viceversa, all'interno di un vasto movimento politico-culturale in quella direzione, iniziato alla fine della prima guerra mondiale e proseguito fino alla fine della seconda. Che, a partire dal trauma profondo causato da quei conflitti e dall'ascesa dei regimi dittatoriali, indicava nel superamento strutturale della contrapposizione tra le nazioni europee la via per arrivare alla pace, e per salvare i princìpi di fondo della civiltà del continente.

Se proprio si vuole cercare un "padre fondatore" in questo senso lo si può trovare proprio in Italia, in Luigi Einaudi, che tra il 1918 e il 1919 nelle sue "Lettere di Junius" sul Corriere della Sera contestava l'internazionalismo della Società delle Nazioni per invocare un ordinamento federalista che archiviasse definitivamente, a tutti i livelli dell'organizzazione politica, lo Stato modernocome unica autorità legittima riconosciuta e l'idea della sovranità assoluta. Tra le due guerre l'ideale federalista e/o europeista veniva poi ripreso in varie declinazioni dal movimento Paneuropa fondato nel 1922 dal conte austriaco Richard Coudenhove-Kalergi, dal Progetto di Unione federale europea proposto nel 1930 alla Società delle Nazioni dal ministro degli esteri francese Aristide Briand, dal progetto di unione federale delle democrazie avanzato nel 1938 nel libro di Clarence Streit Union now, dall'associazione Federal Union fondata nel 1938 nel Regno Unito da intellettuali liberali e socialisti, e da molti altri. 

Come si caratterizza il Manifesto di Ventotene all'interno di questo ampio dibattito? I suoi estensori – e in particolare Ernesto Rossi, che ne era allievo e corrispondente – dichiaravano di aver tratto ispirazione innanzitutto proprio dalle proposte federaliste di Luigi Einaudi. Ma Rossi aveva un'idea del liberalismo diversa, su molti punti, da quella dell'economista piemontese: un'idea radicale incentrata soprattutto sull'idea di combattere i monopoli economici attraverso un energico intervento regolatore dello Stato. Non sorprende, dunque, che la convergenza federalista tra Rossi, il socialista Colorni e un dissidente comunista come Spinelli producesse, nella tensione "messianica" della guerra e del confino a cui erano costretti dal regime fascista, un testo programmatico dai forti tratti "giacobini", ispirato dall'idea di derivazione leninista di una rivoluzione epocale che doveva essere portata a termine da un'avanguardia organizzata di dottrinari pronti all'azione, contro la confusione e le esitazioni regnanti nelle opinioni pubbliche. Né che in esso si sottolineasse soprattutto l'obiettivo di costruire un forte governo centralizzato sovranazionale, minimizzando le esigenze di limitazione del potere e della difesa di libertà, autonomie, pluralismo. 

Per queste sue caratteristiche il Manifesto, pur facendo propria l'idea federale dal punto di vista di un ordinamento sovranazionale, si discostava sostanzialmente dall'ispirazione del federalismo einaudiano. E ugualmente si discostava dall'europeismo predicato in quegli anni nell'area dell'antifascismo cattolico: che avrebbe prodotto nel 1945 il suo testo più rilevante con Parte guelfa in Europa di Piero Malvestiti, fondatore del Movimento guelfo d'azione e poi della Democrazia cristiana insieme ad Alcide De Gasperi. Un europeismo, quest'ultimo, fondato innanzitutto sull'umanesimo cristiano, e poi sulla tradizione di autogoverno dei comuni italiani. 

L'appello ideale del Manifeasto di Ventotene e la fondazione da parte di Spinelli del Movimento federalista europeo furono senza dubbio, nell'immediato dopoguerra, tra le influenze del dibattito che portò a costruire le prime istituzioni comunitarie. Ma non l'unica, e nemmeno la principale. Il piano Schuman del 1950, la CECA, la CED, la CEE nacquero soprattutto dalla cultura politica cattolico-liberale e cattolico-democratica, dall'atlantismo e dall'ispirazione funzionalista di Jean Monnet. 

Non è un caso, però, che proprio il Manifesto sia stato adottato come "testo sacro" dalla sinistra italiana quando è maturata la sua "conversione" europeista, e che Spinelli sia stato "venerato" come suo principale "profeta". Tra le possibili accezioni del federalismo, infatti, quella di Ventotene appariva a reduci vari del marxismo – socialisti, comunisti, post-comunisti – come la più consona alle loro radici politiche per la sua impostazione centralistica, dirigistica e fortemente pedagogica. 

E non è un caso che questa "affinità elettiva" si sia radicata ulteriormente, man mano che la costruzione degli ordinamenti comunitari, da Maastricht in avanti, slittava dall'originario approccio intergovernativo a una crescente torsione in senso oligarchico, tecnocratico, dirigistico, ideologico. Un approccio che, nel processo, metteva bruscamente da parte sia le aspirazioni all'attuazione di una autentica democrazia a livello continentale, fondata sulla responsabilità delle classi dirigenti rispetto al voto popolare, sia le radici culturali e religiose cristiane, "carolingie", che avevano ispirato i veri padri fondatori dell'integrazione continentale: De Gasperi, Schuman e Adenauer. E che, all'inverso, veniva avvertita come naturalmente congeniale da una cultura politica - quella del progressismo post-guerra fredda – confluita nell'esaltazione delle super-élites transnazionali globaliste e, spesso, nel fastidio esplicito verso la libertà di espressione e il pluralismo.