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IL CASO

Il fallimento del PdF e gli errori di prospettiva

L'abbandono del Popolo della Famiglia da parte di Gianfranco Amato, che aveva fondato il partito insieme a Mario Adinolfi, - oltre a confermare una facile previsione - ripropone una domanda sulla rappresentanza del popolo dei Family Day. A cui si continua a dare una risposta sbagliata.

Editoriali 29_06_2018

L’esperienza del Popolo della Famiglia è stata un fallimento; dopo il 4 marzo lo scenario politico è completamente cambiato e c’è bisogno di nuove forme di presenza politica; il primo passo è lavorare per ricostituire l’unità dei soggetti che hanno dato vita ai Family Day. Questa è in sintesi l’analisi che Gianfranco Amato, fondatore insieme a Mario Adinolfi del Popolo della Famiglia, ha condiviso ieri sul quotidiano La Verità per annunciare le sue dimissioni da quel partito.

Non è un fulmine a ciel sereno: dal 4 marzo molti e lunghi sono stati i silenzi di Amato e svariati i segnali di un disagio nei confronti del PdF e del surreale trionfalismo di Adinolfi a fronte di un misero 0,7% uscito dalle urne. Non commentiamo la decisione di Amato né le ovvie e immediate polemiche che si sono scatenate sui social, né gli insulti al suo indirizzo dall’ormai ex compagno d’avventura Adinolfi.

C’è però qualcosa che stona nell’analisi di Amato: non si può rivendicare come giusta la scelta di due anni fa e attribuire agli scenari usciti dal 4 marzo il necessario cambiamento di strategia quando già allora c’era chi aveva previsto come sarebbe andata a finire, e soprattutto la dilapidazione del tesoro accumulato con i Family Day. Allora parlammo di errore di metodo e di contenuto, e di nodi che sarebbero prima o poi venuti al pettine: fummo criticati anche da chi è diventato in questo tempo un acceso denigratore del PdF.

Non è neanche possibile passare da «chi vota Lega è immorale» a «viva il governo della Lega» con disinvoltura spiegando tutto con il terremoto del 4 marzo. La Lega oggi esaltata è la stessa Lega che si è presentata alle elezioni, se si è cambiata idea un mea culpa e qualche scusa sarebbero doverosi viste le scomuniche piovute in campagna elettorale. Scuse che sarebbero doverose anche nei confronti di tanta gente che si è spesa con passione e sacrificio personale fidandosi proprio di Amato, anche quando avallava sciocchezze come la storia del “quarto polo”, “il 3% a portata di mano” e via delirando.

Peraltro tanto entusiasmo nei confronti del governo attuale (definito «una tregua per i cattolici») sembra un po’ prematuro: ci sono segnali positivi, è vero, ma non mancano neanche i segnali inquietanti. Proprio ieri è stato reso noto che il governo parteciperà ufficialmente al Gay Pride di Pompei di domani 30 giugno, inviando come delegato il sottosegretario al Consiglio dei Ministri Vincenzo Spadafora, convinto sostenitore del movimento Lgbt. Conoscendo il significato che Pompei ha per i cattolici, non si può che rimanere sconcertati da questa iniziativa del governo (anche se a stendere il tappeto rosso è stato perfino l’arcivescovo Tommaso Caputo).

Ad ogni modo il caso creato dall’uscita di Amato dal PdF e il suo proposito di riavvicinarsi a Massimo Gandolfini e al suo Comitato Difendiamo i Nostri Figli, per riprendere un discorso interrotto bruscamente con la nascita del PdF, ripropone il tema della rappresentanza del popolo che ha partecipato ai due Family Day del 2015 e 2016.

Pensare oggi di rimettere insieme i cocci di quell’esperienza come se non fosse successo nulla in questi due anni è operazione poco plausibile. Rischia di essere un’operazione di generali che però nel frattempo hanno perso gran parte dei soldati. Dubito fortemente che oggi sarebbe possibile riconvocare a Roma un altro Family Day. E non perché manchino gli argomenti; piuttosto quella giusta aspirazione a contare anche politicamente è stata ridotta dai leader di quelle piazze a calcoli di partito, sia che se ne sia fatto uno in proprio sia che si sia scelto di attaccarsi a qualche treno in corsa. E oggi se ne pagano le conseguenze.

A quella forza popolare che è stata formidabile nel reagire a una minaccia non sono stati offerti strumenti – culturali e sociali - per diventare anche propositiva, una forza che costruisce opere nella società. Si parla tanto della necessità di cattolici in politica, ma non si parte da un dato di fatto evidente: i cattolici oggi sono una infima minoranza; la presenza pubblica dei cattolici oggi è pressoché inesistente perché non c’è più una presenza cattolica tout court. Al massimo c'è una presenza clericale.

Il punto vero non sta in nuove o vecchie strategie per contare di più in Parlamento (per quanto anche questo sia importante), ma sta nel riannunciare Cristo fra gli italiani, sta nella proposta di una compagnia che diventa criterio per giudicare e affrontare ogni cosa, anche nel campo sociale. La storia di questi duemila anni - e anche la storia recente del nostro paese - insegna che il segreto del cambiamento della persona come della società è il Quaerere Deum, cercare Dio. Tutto il resto, compresa la rappresentanza politica, è conseguenza, ci sarà dato in più. E non è un processo che si consuma nei tempi di una legislatura. Però è così che i monaci costruirono l’Europa, è così che tanto è stato fatto dai Santi “sociali”: non come progetto, ma come esito della loro fede che sapeva dare risposte adeguate ai bisogni che incontrava. La stessa Dottrina sociale della Chiesa non può essere ridotta semplicemente a strumento per far funzionare un partito o dare idee ai governanti; è invece uno strumento di evangelizzazione, declinazione della novità portata da Cristo nel giudizio sulle realtà temporali.

Se non si riparte dalla fede, ogni discorso politico è destinato a essere uno sforzo sterile.