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INFLAZIONE/2

Il fallimento dei "socialisti di tutti i partiti"

Gli spazi di libertà dei privati sono sempre più ristretti dalle politiche interventiste dei governi. La spesa a debito, l'espansione della liquidità circolante e la nuova economia verde hanno fatto esplodere i debiti e poi anche l'inflazione, che le banche centrali si illudevano ancora di poter tenere sotto controllo. Seconda parte dell'analisi sull'inflazione iniziata ieri. 

Economia 30_06_2022
Ursula von der Leyen a Davos

Continua dalla prima parte. 

Gli spazi di reale libertà economica dei privati, contrariamente alla vulgata che accusa i sistemi economici attuali di essere turbo-capitalisti, sono diventati in realtà sempre più stretti a causa dell’espansione continua del perimetro pubblico e dal rialzo della pressione fiscale e contributiva; fanno eccezione, ovviamente, i grandi colossi economici e finanziari collusi col potere politico per determinare le regole del gioco e aggiudicarsi fette importanti di ricchezza finanziaria e spesa pubblica. La realtà è che i sistemi economici attuali, compreso quello statunitense, lungi dall’essere caratterizzati da un capitalismo selvaggio, sono nei fatti di tipo clientelare, il cosiddetto crony capitalism: non sono quindi neoliberisti bensì neocorporativi, e sono destinati a diventarlo ancora di più negli anni a venire, per lo meno nelle intenzioni della «iniziativa» di Davos.

La ciliegina sulla torta, si fa per dire, è poi costituita dalla folle transizione ecologica in atto, che sarebbe più corretto denominare transizione ideologica, in particolar modo per la componente energetica, che rappresenta un vero e proprio suicidio per il sistema industriale, in specie in Europa. L’esplosione poi di un conflitto ad alta intensità proprio in Europa, dalla durata e dagli esiti imprevedibili, ha fomentato ulteriormente le tensioni sui prezzi delle materie prime energetiche e alimentari – in rialzo comunque già ben prima dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia –, mettendo in evidenza gli errori di politica economica dell’Europa negli ultimi anni: errori ai quali ora la Commissione europea intendere porre rimedio accelerando ulteriormente la folle corsa verso il Green Deal, costi quel che costi. Date le premesse, ci sono quindi le condizioni per un proseguimento delle forti dinamiche inflazionistiche per anni a venire, con un’ulteriore contrazione della classe media e un’avanzata degli Stati: la “previsione” del World Economic Forum di Davos sul 2030, secondo cui «non avrai più nulla, e sarai felice» (qui e qui) potrebbe così avverarsi, quanto meno per la prima parte…

Mentre i governi in Europa sono concentrati su come spartirsi i fondi del PNRR, con prevedibili assalti alla diligenza trasversali nei vari Paesi, le Banche centrali si sono trovate spiazzate: il loro obiettivo era certamente quello di far salire l’inflazione, ma solo di pochi punti percentuali annui, mantenendo allo stesso tempo schiacciati verso lo zero i rendimenti nominali, in modo da “tassare” la formichina risparmiatrice con rendimenti reali negativi del 2-3% all’anno, senza dare troppo nell’occhio, insomma. Un modo truffaldino per abbattere il valore reale dei debiti del 20-30% in una decina d’anni, a vantaggio della cicala scialacquona e a spese, ovviamente, dei creditori/risparmiatori.

La recente impennata dei prezzi verso – e oltre il 10% – sia in Europa sia negli USA costringe le principali Banche centrali del mondo a riconoscere che l’inflazione non è affatto “transitoria”, come hanno proclamato per molti mesi: hanno detto che si sono sbagliate ma in realtà l’inflazione era il loro obiettivo, solo che ne hanno provocata di più di quanta volevano. Ora le autorità monetarie da piromani devono trasformarsi in pompieri, costrette a perseguire un’affrettata normalizzazione delle proprie politiche monetarie, rialzando i tassi di interesse, arrestando l’espansione dei propri bilanci, anzi iniziando a ridurli drenando la liquidità in eccesso, cercando di non provocare crolli sui mercati finanziari e recessioni sul fronte economico. In ogni caso l’azione delle Banche centrali sarà, come si dice in gergo, behind the curve, volta a mantenere un contesto di rendimenti reali negativi essenziali per evitare dei default di grandi debitori, pubblici e privati. Il rischio di stagnazione o recessione economica, comunque, è reale, come sempre accade dopo le sbornie monetarie.

Ci troviamo, insomma, di fronte all’ennesimo fallimento di quelle politiche keynesiane e neokeynesiane che ispirano le decisioni monetarie e fiscali a livello mondiale: contrariamente alle loro attese, le manipolazioni monetarie e fiscali hanno prodotto contemporaneamente inflazione e stagnazione economica, com’era già accaduto con la “stagflazione” degli anni ’70 del secolo scorso. L’ennesima conferma che la ricchezza reale non la creano né le Banche centrali stampando moneta né i governi facendo spesa pubblica in deficit. Alcuni, pochi privilegiati, più vicini ai rubinetti della liquidità e della spesa pubblica, beneficiano di tali politiche; altri, i più, sono poi chiamati a pagarne il conto: è l’ennesima verifica empirica del cosiddetto “effetto Cantillon”.

Il rialzo dei tassi di interesse creerà ovviamente problemi ai debitori, a cominciare da quegli Stati sovrani con un elevato debito pubblico come l’Italia. I risultati delle politiche di lockdown e dei ristori degli ultimi due anni e mezzo hanno portato a un balzo del rapporto debito/Pil dal 135% pre-CoViD al 150% circa attuale. Un debito che è stato tenuto a galla dagli acquisti attuati dalla Banca Centrale Europea (BCE) con il programma di easing quantitativo speciale denominato PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme), avviato nel marzo del 2020, con l’acquisto di una quota di debito italiano superiore a quella prevista (determinata dalla cosiddetta capital key, pari a circa il 14%, che rappresenta la quota di partecipazione di Banca d’Italia al capitale della BCE): l’obiettivo della BCE – andando al di là del proprio mandato perché la politica monetaria non dovrebbe “monetizzare” i debiti sovrapponendosi alla politica fiscale, che rimane di competenza dei singoli Stati – era di fatto quello di “stringere” gli spread tra i rendimenti dei titoli governativi dell’area, per evitarne la frammentazione. Un obiettivo destinato a rimanere tale anche dopo la fine del PEPP e al di là delle dichiarazioni, a volte altalenanti, della Lagarde, perché i vari Paesi dell’area euro sono oramai legati da un destino comune: aut simul stabunt aut simul cadent. Una tassazione crescente sulla ricchezza immobiliare, molto diffusa in Italia, rimane comunque una probabile contropartita che i nostri governi dovranno concedere negli anni a venire, per abbattere il rapporto debito/Pil; una nuova tassa, quindi, che si aggiunge, come indicato sopra, a quella tassa molto speciale che si chiama inflazione: ce lo chiede l’Europa.

La Bce continuerà quindi a mantenere sotto controllo i differenziali dei rendimenti tra i Btp e i Bund tedeschi, con gli “scudi” e la flessibilità richieste dall’evoluzione degli spread, mentre le politiche fiscali dei vari governi dell’area euro convergeranno sempre più con l’attuazione del Recovery fund europeo, basato sull’assunzione di debito comune. L’Italia scamperà una crisi delle finanze pubbliche che sarebbe inevitabile se lasciata a sé stessa ma dovrà cedere ancora quote di sovranità: dal progetto iniziale di federazione si transiterà insomma, grazie alle crisi e agli stati di eccezione permanenti, verso un super-Stato europeo, che accentrerà sempre più risorse e decisioni.

Su questo punto sono quindi fuori luogo le accuse italiane “sovraniste” all’Europa: beggars can’t be choosers. Non siamo attaccati dall’esterno, siamo perfettamente in grado di farci male da soli, basti pensare alla qualità della nostra classe politica e, in genere, dirigenziale. La sovranità l’abbiamo persa con decenni di politiche di bilancio folli e ora non abbiamo la chance di fare quanto ha fatto, giustamente, il Regno Unito con la Brexit. Inutile quindi vaneggiare di Italexit, in specie con una classe politica, da destra a sinistra, accomunata dal desiderio di attingere a risorse pubbliche – cioè al denaro dei contribuenti privati – per soddisfare le proprie clientele: quei politici che l’economista austriaco Friedrich August von Hayek (1899 – 1992) aveva brillantemente definito i «socialisti di tutti i partiti».