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LA STORIA

Il dono di Luca, tutta la gioia in un pezzetto di cielo

Luca, una breve esistenza diventata un glorioso inno alla vita. Luca è morto a 13 anni, ma con il suo "pezzetto di cielo" (occhi di un azzurro intenso), ha testimoniato una fede semplice e matura, affrontando la malattia riconoscente a quel Signore che di certo non lo avrebbe mai lasciato. Questa la sua storia.

Famiglia 17_05_2016
La copertina de Il libro di Luca

Esattamente dieci anni fa, Luca Bertola, che allora aveva dieci anni, ha ricevuto una diagnosi infausta: sarcoma di Edwing in versione molto aggressiva. Un verdetto spietato che non ha impedito a Luca di amare la vita, di fare progetti, di credere appassionatamente in Dio. La malattia che, giorno dopo giorno, diventava sempre più grave è stata l’inizio di un itinerario spirituale che la mamma, oggi, in questo “anniversario” così doloroso della breve esistenza di suo figlio vuole ricordare per trasmettere a tutti i ragazzi malati e sani la voglia di progettare, la voglia di credere. 

Occhi azzurro-cielo, solare, sorridente, tifava per lo sport e per la vita. Impazziva per il motociclista Dani Pedrosa. Amava la pizza, la pasta con i pomodori e la pancetta, l’hamburger, le brioches al cioccolato, le caramelle alla Coca Cola, la play station. Luca Bertola, è morto a 13 anni: ragazzo nello stile di vita, uomo nel cuore. Il suo calvario è iniziato, appunto, nel 2006: tutte le sere aveva la febbre che non passava. All’inizio di quell’anno gli esami erano negativi, ma verso giugno il verdetto è arrivato in tutta la sua crudeltà. Il cancro, in questo tempo costellato di falsi negativi si era propagato con più spietatezza: nel futuro di Luca si sarebbero susseguite a ritmo continuo chemioterapia, radioterapia, chemioterapia ad alte dosi e ancora radioterapia, continui viaggi tra Petrazzi, paese di residenza in Toscana e Milano per soggiornare all’Istituto dei tumori. Una Via Crucis segnata da una certezza: «Mamma, Dio mi ama. Non è stato Lui a volere la mia malattia, semmai sono gli uomini che avvelenando le acque, il cibo, la terra causano tante patologie».

Fin dalla prima elementare il suo sogno era quello di diventare medico e durante la malattia, quando in ospedale è venuto a contatto con bambini stranieri, ha aggiunto un altro progetto al primo: «Mamma, prima di diventare dottore devo studiare le lingue perché per curare gli immigrati devo conoscere le parole con cui si esprimono». Oltre a pensare intensamente al suo futuro Luca si preoccupava tanto per gli altri, in primis per Gesù. «Quando recitavamo il Rosario mentre facevo i mestieri», racconta la mamma Agnese Guglielmi, «non “reggeva” i Misteri Dolorosi e quando arrivava alla parte Cristo Flagellato il suo viso si riempiva di lacrime e il respiro diventava carico di affanno. Tanto che dovevamo interrompere la preghiera». 

Con gli amici era molto affettuoso e premuroso. Soprattutto aveva un occhio di riguardo per chi era in difficoltà. Una volta una compagna a scuola l’ha fatto cadere e lui in Pronto soccorso anziché pensare alla sua guarigione ha detto: «Mamma, non parlare al dottore di quella bambina. Se dici che sono caduto per colpa sua la sospendono e io non voglio questo!». In un pomeriggio di tregua durante la fase-chemio-ad-alte-dosi ha scritto una preghiera in cui chiedeva al Signore di pregare per tutti quelli che non pregano, per chi è sotto le bombe, per chi non ama, per chi soffre, per chi è stato rapito. 

«Sì, il mio bambino», dice la mamma, «non chiedeva per sé, piuttosto desiderava sempre il bene per gli altri. E pregava per questo. Poco prima di morire durante l’incontro con frate Massimiliano dell’Eremo delle Carceri anche lui malato, ma in fase di guarigione, Luca è riuscito a manifestare all’amico la sua gioia così: “Sono contento perché so che tu ce la farai”». Ogni giorno Luca ringraziava Gesù per il bene della Vita, non trascurava i suoi doveri e si affidava a Lui che considerava il suo maestro. Racconta ancora la mamma: «Luca aveva i suoi sogni, voleva diventare medico, amava le moto, il calcio. Questo era il suo mondo di ragazzo, il suo progetto di vita. Dio però aveva un altro piano su di lui. E Luca si è fidato e affidato». Tra le sue sante preferite c’era Teresa di Lisieux, da cui ha imparato ad accettare la sofferenza con amore e dono di sé a Dio. 

A volte alla mamma è capitato di vederlo sulla carrozzina girato e con la testa china, allora lei si preoccupava per i dolori, ma lui spesso rispondeva: «Sto pregando». Anche durante le fasi più dure della terapia ha continuato a studiare, anche se non poteva più andare a scuola. Era seguito dalle insegnanti a casa e quando è stato costretto in sedia a rotelle una delle prime domande che ha rivolto è stata: «E ora come sarà possibile continuare a fare il chierichetto?». E anche quando i dolori erano fortissimi, persino resistenti alla morfina, la sua preoccupazione era quella di non mancare l’appuntamento con la preghiera. Una sera però non ce la faceva proprio a pronunciare le orazioni. Dice la mamma: «Lo rassicuravo spiegandogli che la sua vita era una preghiera. Ma lui, non convinto, mi disse che Gesù pregava anche quando soffriva». 

Quella notte Luca non riuscì a riposare nonostante i calmanti, verso il mattino in tono molto preoccupato ha espresso la paura di non andare in Paradiso. La mamma gli ha risposto: «Cosa dici? Da dove vengono questi pensieri? Se non vai tu vicino a Gesù, chi deve andare? E poi all’inferno ci sono troppe persone, dovranno rifare il piano regolatore!». La risposta di Luca ha messo in evidenza il fatto che la mamma non era imparziale, non poteva esserlo! L’ultimo giorno, prima di entrare in agonia, Luca ha voluto confessarsi e ricevere ancora una volta la Santa Comunione insieme alla mamma e recitare il Credo. Dopo loro sono rimasti insieme, hanno parlato della morte. Luca ha detto che da una parte si sentiva sereno e contento perché andava da Gesù, dall’altra aveva un po’ paura perché si sentiva giovane, con tante cose da fare. 

Al mattino presto del giorno dopo, venerdì 11 settembre, arrivarono don Tullio e i fratelli Francesco e Martina con un sacchetto di brioches. Lui chiese a che gusto erano e ne mangiò due. Fu l’ultimo cibo che gustò. Poi entrò in coma. Fino alla fine della vita Luca non si è lamentato, ha dimostrato il proprio amore per le persone e per le cose che erano intorno a lui. Fino alla fine non ha smesso di vedersi grande. Fino alla fine non ha pensato a se stesso, ma ha dato amore a chi era al suo fianco e anche a coloro che erano lontani. 

Un mese prima di morire ha scritto sul suo diario che era preoccupato per il fratello Francesco perché era troppo nervoso e allora ha chiesto al Signore di vegliare su di lui. Nel diario di agosto ogni giorno è siglato con un grazie Dio. Nessun lamento, nessun vittimismo, in tutta la sua testimonianza si avverte solo la convinzione profonda che Gesù non ci lascia mai soli. Forse ognuno di noi dovrebbe meditare su Il libro di Luca scritto dalla mamma Agnese Guglielmi per le edizioni Piemme anche solo per dirgli “grazie”.