Il delitto di Paderno e l'accettazione dei limiti nelle famiglie perfette
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Le aspettative che i ragazzi oggi sentono di dover soddisfare possono essere vissute in modo opprimente. C’è una pressione fortissima perché tutto ciò che li riguarda sia perfetto, ma tutto questo può avere un costo elevato. Considerazioni a margine del delitto di Paderno Dugnano.
In genere succede così. Accade un fatto grave, inspiegabile, terribile e misterioso e si chiede il parere allo psicologo. Il presupposto è che il suddetto psicologo abbia qualche altrettanto misterioso superpotere e «capisca le persone»; su queste basi, si ritiene che egli sappia dare una spiegazione razionale ai fatti più strani accaduti.
Il buon senso e la dignità personale e professionale vorrebbero che, a questo punto, lo psicologo si neghi, rimandando il parere richiesto a quando le cose saranno più chiare. Invece, regolarmente, egli si esibisce in una delle due opzioni seguenti: A) una «supercazzola» nella quale dice tutto e il contrario di tutto (cioè niente) infarcendo le dichiarazioni con termini tecnici in modo da risultare fumosamente incomprensibile; oppure B) ripete i suoi cavalli di battaglia lasciando intendere che lui l’aveva predetto ma nessuno gli offre la considerazione che meriterebbe. Del resto, la cronaca incalza e non c’è tempo per informarsi meglio e riflettere: a chi interesserebbe il famoso parere un paio di mesi dopo l’accaduto? Tutti se ne saranno dimenticati…
In questo caso, l’episodio di cronaca è la strage di Paderno Dugnano (il diciassettenne che ha ucciso nella notte senza un apparente movente fratellino, padre e madre), lo psicologo sono io e scelgo l’opzione B.
Ripesco quindi i miei cavalli di battaglia profetici ma inascoltati, ossia la fragilità psicologica delle giovani generazioni e il loro senso di inadeguatezza generale in una società sempre più competitiva. Questo come contesto generale; più nello specifico, possiamo ragionare solo sulle poche dichiarazioni che Riccardo (questo il nome del diciassettenne omicida) ha rilasciato alla stampa: «Io da questa famiglia mi sentivo estraniato. Come, non saprei dire… ecco: oppresso. Non so dirvi da quanto. Da un po’. E ho pensato che liberandomi di tutti loro mi sarei liberato anche di questo problema, di questa sensazione». Cosa significano, queste affermazioni?
C’è chi parla di mancanza di dialogo, di solitudine… non pare sia questo il caso: Riccardo faceva sport (pallavolo), aveva amici, la fidanzata, andava bene a scuola. Insomma, un ragazzo serio, studioso, tranquillo; il figlio perfetto. Il figlio perfetto una una famiglia perfetta: «Meglio di questa famiglia qua non so se ce ne sono altre», commenta un vicino; «Sembra uscita dagli spot del Mulino Bianco», chiosa un giornalista. E se il problema fosse proprio questa perfezione?
Riccardo ha dichiarato che si sentiva «oppresso», ma questo non significa che la famiglia fosse oppressiva (non sarebbe stata perfetta). Cosa, dunque, lo opprimeva? Ovviamente è soltanto una ipotesi, ma sappiamo che le aspettative che i ragazzi oggi sentono di dover soddisfare possono essere vissute in modo – appunto – opprimente. C’è una pressione fortissima perché tutto ciò che li riguarda sia perfetto ma tutto questo può avere un costo elevato. Nessuno è perfetto, ma non poter accettare il proprio limite può essere davvero esplosivo. É un po' come la pentola a pressione: se ogni tanto non sfiata, rischia di esplodere. L’errore, il fallimento, la stupidaggine, dal punto di vista educativo sono tanto necessarie quanto la sicurezza, il dialogo e il successo.
Ma insomma, dirà qualcuno, i genitori sbagliano sempre: sia che sbaglino, sia che non sbaglino. Esatto: accettiamo il nostro limite, la nostra mediocrità, anche da genitori. Ecco un buon esempio per i ragazzi.
Insomma: facciamo del nostro meglio e confidiamo nella misericordia divina. Tutto qua.