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DDL Zan

Il Ddl Zan colpisce duramente anche il mondo del lavoro

Art. 8 del Ddl Zan: il punto relativo al lavoro che parla di quote, agevolazioni, voucher, formazione Lgbt nasconde un business pericoloso per le imprese. Gli effetti negativi del Ddl si sentiranno anche nel mondo del lavoro.

Gender Watch 25_05_2021

Il disegno di legge Zan è un iceberg, di cui si intravede solo la punta. Molti si accorgeranno delle insidie che nasconde sotto il pelo dell’acqua solo quando – Dio non voglia! – dovesse essere approvato in Senato. Solo allora, purtroppo, ci si potrà rendere conto della montagna nascosta, esattamente come capitò al povero comandante del Titanic quella tragica domenica sera del 14 aprile 1911.

Ogni singolo articolo del Ddl Zan contiene un’insidia. Prendiamo, per esempio, un ambito che è stato poco considerato nell’attuale dibattito in corso, e che è contenuto nell’art.8, ovvero quella disposizione che modifica la legge costitutiva dell’UNAR (Ufficio Antidiscriminazione Razziale), ente governativo alle dipendenze del Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

L’art.8, infatti, prevede espressamente che l’UNAR elabori «con cadenza triennale una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere». Continua l’articolo: «La strategia reca la definizione degli obiettivi e l’individuazione di misure relative all’educazione e all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza, anche con riferimento alla situazione carceraria, alla comunicazione e ai media».

Per capire di cosa si tratti in concreto, basta considerare che nel 2013 lo stesso UNAR già elaborò una “Strategia nazionale” (che fortunatamente allora riuscimmo a fermare), proprio nei quattro ambiti indicati dal DDL Zan, che vennero definiti “assi”: (I) Educazione e Istruzione, (II) Lavoro, (III) Sicurezza e Carcere, (IV) Comunicazione e Media.

Consideriamo, ora, il secondo asse di quella Strategia cui il Ddl Zan vorrebbe dare valore legale tramite l’art.8, ossia quello del lavoro privato costituito dai piccoli, medi e grandi imprenditori, dai professionisti, dagli artigiani, dai commercianti e dalle partite Iva in generale. Per quanto riguarda questo settore, il documento dell’UNAR precisa che «le principali criticità riguardano la discriminazione nell’accesso al lavoro, il mobbing, il demansionamento, il blocco nella progressione di carriera, le discriminazioni multiple». Salvo poi precisare che, comunque, «non esistono dati o indagini per quanto riguarda le promozioni o progressioni di carriera ed i licenziamenti in riferimento alla comunità LGBT». Del tutto risibile appare, poi, l’affermazione secondo cui «la comunità gay e lesbica in ambito lavorativo ha difficoltà nel coming out per timore di ripercussioni e ritorsioni sulle possibilità di accesso al lavoro e di carriera, a causa del pregiudizio persistente e alla scarsa informazione sulla tematica dei datori di lavoro e dei livelli dirigenziali».

Siamo al comico involontario: non solo il coming out oggi sta diventando sempre più trendy, ma consente anche fulminanti carriere. Il documento continua attraverso i consueti sproloqui sull’«importanza delle pratiche di diversity management», che «favorisce l’attivazione dei talenti e incrementa la produttività aziendale», e sul cosiddetto «business inclusivo» (qualcuno sa di cosa si tratti?). Seguono corsi di informazione per «sensibilizzare i datori di lavoro, le figure dirigenziali, i lavoratori e le lavoratrici, le associazioni di categoria sulle tematiche LGBT», nonché la «creazione di network LGBT all’interno delle aziende e istituzione a livello di alta dirigenza del ruolo di mentore LGBT», di «appositi fondi strutturali europei», di «benefit specifici per le persone LGBT, anche in relazione alle famiglie omogenitoriali», nonché «la certificazione delle aziende gay friendly e l’istituzione del primo indice italiano (Equality Index) che misuri l’uguaglianza-inclusione come rispetto delle persone LGBT nelle imprese operanti in Italia».

Non poteva mancare, poi, la solita opera rieducatrice. E allora ecco corsi «di sensibilizzazione e formazione per i dipendenti e per tutti i livelli di management, che aiutano a costruire programmi di mentoring e a migliorare i propri percorsi professionali», «iniziative specifiche di formazione professionale per transessuali e transgender», «pubblicazioni informative rivolte ai datori di lavoro».

Né potevano mancare, ovviamente, le agevolazioni. E allora ecco le «borse lavoro, voucher o carte di credito di formazione per persone LGBT», le «azioni positive per imprenditoria giovanile LGBT», e la «promozione dell’accesso al credito agevolato e alla formazione per imprese cooperative per i giovani gay delle Regioni del Sud». Poiché non appare chiaro come possa accertarsi il requisito di omosessualità e transessualità richiesto per le agevolazioni e i sussidi, è facile presumere una formidabile impennata di giovani gay nel Mezzogiorno del nostro Paese. Del resto, lo sosteneva già l’imperatore Tito Flavio Vespasiano venti secoli fa: pecunia non olet!

Si capisce molto bene, comunque, come dietro questa “strategia” si nasconda in maniera neanche troppo velata il business dei consulenti aziendali, dei formatori professionali, dei certificatori, di tutta quella pletora di soggetti disposti, previo profumato compenso, a spiegare come imprenditori e professionisti dovranno mettersi in regola con le disposizioni dettate dall’UNAR. Un po’ quello che è successo in passato con la cosiddetta “Legge 626” (in realtà era il Decreto Legislativo n.626/94) sulla sicurezza sul lavoro.

Quello che meraviglia è il fatto che imprenditori di qualunque dimensione, professionisti, artigiani, commercianti non reagiscano di fronte alla minaccia di dover subire l’ennesima inutile incombenza burocratica a pagamento per le loro aziende, i loro studi, i loro laboratori, i loro negozi. Riesce difficile immaginare che tutti costoro possano credere davvero alle insulsaggini raccontate da uno come Fedez. Mistero.