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IL CASO

Il curriculum non basta (per fortuna)

I giornali si scandalizzano per la gaffe del ministro Poletti sul curriculum e il calcetto. Ma ha toccato il dito nella piaga: l’obbligo che il settore pubblico ha di selezionare i candidati in base a criteri astratti provoca un effetto distorsivo, non saggia le attitudini e spinge chi vuole andare avanti a cercare protezioni politiche. Ma nel privato è (per fortuna) diverso. 

Editoriali 30_03_2017
Giuliano Poletti

Il governo di Roma sta negoziando a porte chiuse con la Commissione Europea degli impegni che, se fossimo ancora un Paese realmente democratico e indipendente, si dovrebbero prima discutere a porte aperte in Parlamento. E tutto l’ordine costituito della stampa italiana, ex-coscienza critica dell’opinione pubblica, non ci trova niente da ridire; anzi ci inzuppa il pane.  Il vero scandalo della settimana è questo.

Frattanto pagine intere vengono invece dedicate alla polemica innescatasi a partire da una frase che il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, ex-presidente della Legacoop, avrebbe detto parlando a Bologna a un pubblico di studenti universitari; ovvero  che, ai fini della ricerca di un posto di lavoro, una partita a calcetto vale di più di un curriculum. Il ministro ha poi precisato che con quella frase, peraltro non testuale, qualcuno aveva presunto di sintetizzare circa due ore di dialogo e di confronto. Ha confermato però di aver sostenuto nella circostanza che nella scelta di una persona da assumere conta il curriculum vitae ma contano anche  la capacità di relazione e le conoscenze acquisite nei più diversi ambiti; per l’appunto magari anche giocando in una squadra di calcetto.

Al di là dell’infelice concomitanza, e con la promessa che continueremo a origliare dietro le porte chiuse di Bruxelles, il polverone sollevato dalle parole di Poletti resta una buona occasione per mettere il dito su una delle tante crisi che accompagnano questo ormai avanzato tramonto dell’età moderna: quella del preteso primato morale di tutto ciò che è astratto e impersonale rispetto a tutto ciò che è concreto e personale. Insomma il preteso primato della “legge”, non a caso proclamato dalla Rivoluzione Francese e da tutti gli ordinamenti che in vario modo ne sono derivati. Corollario di questo primato è la presunta equità a priori della norma e del procedimento astratti, e rispettivamente della presunta iniquità a priori alle norme e ai procedimenti ex bono et aequo.

In effetti tale preteso primato morale non ha mai trovato pieno riscontro nei fatti.  Questo innanzitutto per una ragione positiva, ovvero perché la qualità delle cose non può mai venire esaurientemente verificata sulla base di criteri astratti. Venendo al caso specifico della selezione del personale, l’esperienza dimostra che un motivo principale per cui la qualità del personale della pubblica amministrazione è nell’insieme inferiore alla qualità del personale delle imprese private dipende in larga misura dai modi del reclutamento e dello sviluppo della carriera. L’obbligo che il settore pubblico ha di selezionare i candidati in base a criteri astratti e formali finisce infatti per provocare un duplice effetto distorsivo: da un lato non è in grado di saggiarne le effettive attitudini e dall’altro spinge chi vuole andare avanti non a far tesoro delle proprie capacità bensì a cercare amicizie oscure e protezioni politiche. Paradossalmente dunque la scelta di selezionare le persone soltanto in base a criteri astratti sortisce l’effetto opposto a quello che si pretende.

Un adeguato curriculum vitae, il superamento di esami formali sono comunque una condizione necessaria; non però una condizione sufficiente. Laddove, come nel privato, reclutare i migliori è una necessità incondizionata, l’analisi del curriculum vitae è soltanto il primo stadio di un processo che implica poi colloqui, prove pratiche, verifiche. Implica insomma forme di accertamento delle effettive capacità umane, relazionali e psicologiche dei candidati. In fin dei conti  pesa specificamente proprio ciò che di per sé il curriculum vitae non dimostra, e il pubblico concorso non verifica. E le conseguenze si vedono, con esiti particolarmente gravi nei settori più delicati della pubblica amministrazione, dall’insegnamento alla magistratura. Tornando allora al povero ministro Poletti, ormai soprattutto noto per le sue gaffes,  è giusto concludere che nella sostanza aveva ragione.

Tutto ciò fermo restando, le distorsioni sono ovviamente possibili anche nel secondo dei due sistemi considerati. Come è noto infatti,  all’uomo non è possibile inventare  “sistemi così perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono”.  Questo non toglie tuttavia che convenga sempre puntare al meglio e non al peggio. In tale prospettiva, con la sua smania di normare tutto e di oggettivare tutto,  la cultura politica delle attuali forze di maggioranza è una sicura garanzia di peggioramento. E non è di conforto il fatto che nel loro attuale vuoto di idee e di proposte le forze di opposizione non saprebbero fare di meglio.