Il culto di Cristo – Il testo del video
A Cristo dobbiamo un culto di latria, cioè di adorazione: lo stesso vale per la croce e le sue immagini, in quanto rimandano a Lui. Il vero senso del divieto dell’Esodo (20,4) e l’Incarnazione. Il culto di iperdulia dovuto a Maria. Perché venerare le reliquie dei santi: S. Girolamo e S. Tommaso rispondono.
Oggi chiudiamo, con la quæstio 25 della III parte della Somma Teologica, la sezione che abbiamo dedicato al mistero di Cristo, dunque delle due nature, umana e divina, nell’unica persona del Verbo. E chiudiamo con questa questione dedicata al culto dovuto al Signore, a Cristo. Dalla prossima catechesi apriremo invece la grande sezione dedicata ai misteri della vita del Signore; dunque passeremo dal mistero della persona di Cristo ai misteri della sua vita. Vedremo la relazione tra queste due sezioni, perché i misteri della vita di Cristo non sono semplicemente una narrazione storica di eventi vissuti da un personaggio storico, ma hanno un valore che si estende in ogni tempo, proprio in ragione del fatto che Colui che li ha compiuti è sì vero uomo, ma è anche vero Dio.
La struttura fondamentale della quæstio 25 è imperniata sui primi due articoli. Nell’art. 1 san Tommaso si domanda se all’umanità e alla divinità del Signore sia dovuto un unico stesso culto o se invece vada distinto; nell’art. 2 si domanda di che natura debba essere questo culto dovuto a Cristo, se di adorazione o di venerazione.
Partiamo dalla prima tematica. San Tommaso pone un principio fondamentale: l’onore che viene attribuito alla persona di Cristo è unico, perché la persona di Cristo è una. Dunque, una è la persona, uno è il culto. Infatti, nel corpo dell’articolo san Tommaso scrive: «Essendo in Cristo unica la persona della natura divina e di quella umana, e unica l’ipostasi o supposito, il culto e l’onore è uno solo in ragione della persona» (III, q. 25, a. 1). Quindi, il principio cardine è questo: il culto è uno perché la persona è una. Se noi dividessimo il culto dovuto a Cristo uomo e a Cristo Dio, staremmo dividendo in realtà la persona, cioè staremmo affermando due persone, non due nature in una persona. Ecco perché il culto riferito a Cristo è uno.
Però san Tommaso aggiunge una distinzione: «Tenendo però conto delle cause per cui essa [cioè la persona di Cristo] viene onorata, possiamo parlare di onori diversi: per esempio, altro è l’onore che viene tributato alla sua sapienza increata, altro è l’onore che viene tributato alla sua sapienza creata» (ibidem). In sostanza, san Tommaso ci sta dicendo che il culto è uno, ma la ragione di questo culto può essere molteplice. E questa molteplicità si basa sulle due polarità delle due nature, da cui l’esempio: sapienza increata, eterna; e sapienza creata, nella sua umanità creata.
Quale tipo di culto è dovuto a Cristo? Evidentemente, se il culto è uno perché la persona è una, la persona del Verbo, allora è un culto di adorazione, in greco “latria”. Impariamo questo vocabolo, che dovrebbe far parte del vocabolario concreto del cristiano. Un culto di latria: perché? Perché il culto dovuto anche all’umanità di Cristo è lo stesso di quello dovuto al Verbo incarnato, in ragione dell’unità della persona, dell’unica persona del Verbo. A cui, però, si può associare il culto di “dulia”, di venerazione. Il culto di dulia riguarda ciò che entra nella dimensione della sua umanità, intesa in sé stessa, cioè non intesa come un’altra persona; non è che alla persona del Verbo diamo il culto di latria e alla persona umana di Cristo diamo il culto di dulia. Abbiamo visto infatti che non esistono due persone: esiste l’unica persona del Verbo, con due nature. Quindi, è una sorta di astrazione che facciamo: se ci occupiamo dell’umanità di Cristo, considerata in sé stessa, possiamo parlare di una dulia, cioè di una venerazione di questa umanità, ma sempre sapendo che ogni volta che ci riferiamo a Cristo, come persona, dobbiamo offrirgli sempre un culto di latria, di adorazione, in ragione dell’unica persona a cui le due nature si riferiscono.
Negli articoli successivi, san Tommaso mostra alcune conseguenze di quanto abbiamo detto. Quanto affermato nei primi due articoli è a sua volta conseguenza del dogma cristologico, delle due nature nell’unica persona di Cristo. Quanto andiamo ad affermare adesso è quindi la conseguenza di questa conseguenza. Cioè, il fatto di dire che alla persona del Signore Gesù è dovuto il culto di latria, di adorazione, comporta una serie di conseguenze relative a noi che ci troviamo di fronte alle immagini di Cristo e alle reliquie della vita e in particolare della Passione di Cristo.
Quale tipo di culto dobbiamo offrire a queste reliquie? Nell’art. 3, san Tommaso si sofferma proprio sul culto dovuto alle immagini di Cristo, alle icone che rappresentano il Signore Gesù. Questo articolo è interessante anche per comprendere e rimuovere alcune obiezioni che ci vengono mosse da diversi settori, da molte aree del mondo protestante, dai Testimoni di Geova, ed altri. E qual è questa obiezione? San Tommaso la descrive nella prima delle quattro obiezioni riportate nell’art. 3; essa si basa sulla classica citazione tratta dal libro dell’Esodo: «“Non ti farai idolo né immagine alcuna” (Es 20, 4). Ma non si può prestare culto alcuno contro il divieto di Dio. Quindi alle immagini di Cristo non si deve il culto di latria» (III, q. 25, a. 3). Cioè, non si deve l’adorazione. Detto in soldoni: se c’è scritto nella Parola di Dio che non bisogna farsi idolo né immagine alcuna, perché voi cattolici – come anche gli ortodossi in questo caso – invece fate queste icone e le offrite un culto?
Risponderemo poco più avanti. Prima leggiamo la quarta obiezione, anche questa interessante: «Nel culto divino si deve praticare solo ciò che fu istituito da Dio, tanto che anche l’Apostolo [san Paolo] nel tramandare la dottrina sul sacrificio della Chiesa scrive: “Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Ma nella Scrittura non si trova alcuna tradizione sul culto delle immagini. Quindi le immagini di Cristo non vanno adorate con culto di latria» (ibidem).
È un’obiezione importante, perché inserisce una norma relativa al culto. San Tommaso presenta l’obiezione per cui nel culto non bisogna mettere cose che non sono state istituite da Dio, perché san Paolo dice “vi ho trasmesso quello che io ho ricevuto, non altro da quello che ho ricevuto”. E in effetti ha un senso: oggi potremmo dire che la liturgia non è il luogo delle sperimentazioni liturgiche, non è il luogo dove si traducono idee, mode, sensibilità, perché la liturgia è il luogo di ciò che è stato istituito da Dio. E questo è assolutamente vero e sarebbe il caso di ricordarselo con un po’ più di frequenza.
Ma d’altra parte san Tommaso dice che questa obiezione è mossa contro un uso della Chiesa che, non essendo presente nelle Scritture, dovrebbe essere ipoteticamente accantonato, rimosso laddove lo si pratica. Quindi, è un’obiezione importante che punta a quella che è la tradizione della Chiesa, ossia solleva la domanda: esiste una fonte che sia diversa – chiaramente non contraddittoria – distinta da quella delle Scritture e che sia altrettanto normativa? È questo che c’è sullo sfondo di questa quarta obiezione.
Tenendo presente lo sfondo di queste due grandi obiezioni, san Tommaso riporta il grande Padre della difesa delle icone, cioè san Giovanni Damasceno, che nel suo De fide orthodoxa (Sulla fede ortodossa) cita a sua volta una frase di san Basilio Magno: «“L’onore reso all’immagine indirizza al prototipo”, cioè all’esemplare. Ma l’esemplare, cioè Cristo, merita il culto di latria. Quindi anche la sua immagine» (ibidem). Qui abbiamo in breve tutta la dinamica della venerazione delle icone. In sostanza, il meccanismo è questo: io non venero l’immagine, ma do venerazione – e vedremo di che tipo – all’immagine in quanto questa immagine si indirizza al prototipo. È, potremmo dire, uno specchio che immediatamente rimanda al prototipo. Ma chi è il prototipo dell’immagine di Cristo? Evidentemente, Cristo stesso. E per le ragioni che abbiamo già visto, a Cristo va dato il culto di adorazione, di latria, e dunque anche all’immagine.
San Tommaso spiega: «Bisogna dire che a un’immagine di Cristo in quanto è una cosa a sé stante, per esempio una scultura in legno o una pittura, non si deve nessun culto, poiché questo spetta solo a una natura razionale» (ibidem). Cioè, se il culto fosse all’immagine in quanto immagine, in quanto pezzo di legno o raffigurazione o scultura, saremmo giustamente da biasimare, perché semmai si onora una persona, non si onora una cosa; se si onora una cosa lo si fa in riferimento alla persona a cui quella cosa rimanda. Se noi onoriamo la bandiera italiana, non è che onoriamo il pezzo, onoriamo la patria. Prosegue Tommaso: «Quindi ad essa [all’immagine] va tributato un culto solo in quanto è immagine [non un culto in sé stesso]. E così è identico il culto verso Cristo e verso la sua immagine» (ibidem). Dunque, san Tommaso ci dice: se io prendo l’immagine in quanto immagine e basta, non si pone proprio la questione, perché all’immagine non va dato un onore, essendo un puro oggetto; ma se invece le do onore in quanto “immagine di…”, allora devo dare a quella immagine lo stesso onore che do a colui al quale l’immagine si riferisce. Trattandosi di Cristo, poiché a Cristo viene dato il culto di latria, di adorazione, anche all’immagine viene dato il culto di latria.
Allora si capisce, per esempio, la risposta che viene data alla prima obiezione dove san Tommaso ci dice che il divieto dell’Esodo viene dato innanzitutto perché non si deve dare culto alla cosa in sé; e noi infatti non lo diamo alla cosa in sé, ma a Colui di cui quella icona o scultura è immagine.
Secondo, quando si dice che “non ti farai alcuna raffigurazione”, san Tommaso, nel solco del grande ragionamento che fece san Giovanni Damasceno alcuni secoli prima, risponde: «Del Dio vero poi, essendo esso incorporeo, non si poteva fare di esso alcuna immagine materiale poiché, come dice il Damasceno, “è cosa sommamente stolta ed empia raffigurare ciò che è divino”» (ibidem). Ciò che non è visibile non si può e non si deve raffigurare. Ma aggiunge Tommaso: «Poiché nel Nuovo Testamento Dio si è incarnato, può essere adorato nella sua immagine corporea» (ibidem). Noi raffiguriamo Cristo perché Cristo stesso ha preso una figura, ha preso una natura visibile e quindi rappresentabile, raffigurabile; e veneriamo con culto di latria, di adorazione questa immagine in quanto rimanda a Cristo che è vero Dio e vero uomo nell’unica persona del Verbo. Questa è la chiusura del cerchio della prima obiezione.
Vediamo ora la seconda obiezione cui abbiamo accennato (la quarta che san Tommaso porta nell’elenco dell’art. 3). Ricordiamo l’obiezione: non c’è scritto nella Bibbia che si debba dare culto alle immagini di Cristo; e dunque farlo è un’intrusione, è un aggiungere qualcosa a ciò che Dio in realtà non ha detto, non ha comandato. San Tommaso risponde così: «Gli apostoli, per una familiare assistenza dello Spirito Santo, tramandarono alle Chiese l’osservanza di alcuni usi che non sono riferiti nei loro scritti, ma sono contenuti nella pratica della Chiesa conservata nella successione ininterrotta dei fedeli. Per cui lo stesso Apostolo [qui cita 2Ts 2, 15] raccomanda: “State saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia dalla nostra parola”, cioè oralmente, “sia dalla nostra lettera”, cioè per iscritto. E nell’insieme di queste tradizioni c’è l’adorazione dell’immagine di Cristo. Si dice infatti che san Luca stesso abbia dipinto un’immagine di Cristo che si trova a Roma» (ibidem).
Con un linguaggio post-tridentino, oggi diremmo che la Rivelazione si chiude con la morte dell’ultimo apostolo e ciò che lo Spirito Santo ha ispirato agli apostoli noi lo conosciamo non solo attraverso gli scritti apostolici che sono contenuti nel canone delle Scritture – gli Atti, le epistole di san Pietro, san Giacomo, l’Apocalisse, eccetera – ma anche per la pratica della Chiesa conservata nella successione ininterrotta che traduce un esempio o un insegnamento orale degli stessi apostoli, che quindi diventa normativo per la Chiesa, esattamente come le Sacre Scritture. E in questa pratica, non scritta ma costante, c’è proprio quella dell’adorazione delle immagini di Cristo.
San Tommaso fa un riferimento ben preciso all’immagine di Cristo dipinta da san Luca e che si troverebbe a Roma. A che cosa si sta riferendo? Si sta riferendo all’immagine acheropita del Signore conservata nella chiesa di San Lorenzo, nel cosiddetto Sancta Sanctorum, in Piazza San Giovanni in Laterano, dove c’è la Scala Santa. Lì è custodita questa immagine, non dipinta da mano d’uomo, che si ritiene sia stata realizzata da san Luca con l’assistenza di un angelo. Ecco perché è anche acheropita. A san Luca vengono attribuite anche diverse icone della Madonna. Questa tradizione ci dà un supporto – e non si tratta dell’unico aspetto – riguardo al fatto che gli stessi apostoli, gli stessi evangelisti hanno messo mano alla realizzazione delle icone. Al di là di questo aspetto, è un fatto che la realizzazione e la venerazione delle icone è qualche cosa che veramente si radica nell’antichità ed è stata portata avanti dalla Chiesa non senza delle obiezioni; ma la Chiesa ha sempre difeso questo uso e soprattutto l’ha praticato.
Nell’art. 4 san Tommaso si chiede se alla croce di Cristo sia dovuto il culto di latria. E fa una distinzione tra la croce di Cristo vera e propria, che attraverso i suoi frammenti è presente in molte parti della cristianità, e le immagini della croce. San Tommaso dice che in entrambi i casi bisogna dare un culto di latria, di adorazione, ma nel caso della croce per una duplice ragione, ossia: 1) sia perché è immagine di Cristo. In che senso immagine? Non perché riporta la raffigurazione di Cristo, ma perché la croce immediatamente richiama il Crocifisso; non c’è croce senza Crocifisso nel culto cristiano; 2) l’altro aspetto, che è tipico solo della croce vera e propria, è il contatto; la croce, a differenza di una semplice immagine della croce, è stata anche a contatto con il corpo del Signore, si è impregnata del sangue e del sudore del Signore. Invece le immagini della croce vanno venerate sempre con culto di latria, come la croce stessa, ma solo in quanto immagini.
Anche qui è interessante che san Tommaso faccia una precisazione e cioè che la croce di Cristo è immagine di Cristo, immagine gloriosa, segno della sua potenza, evidentemente per chi ha la fede; mentre è strumento di infamia solo per coloro che non hanno la fede. Ma il culto è sempre un atto all’interno della prospettiva della fede. Altra precisazione: San Tommaso chiaramente dice che anche altri strumenti con cui Cristo è entrato in contatto durante la sua vita e durante la sua Passione, pensiamo ai chiodi, alla corona di spine, al sudario, alla tunica, anche questi, in ragione del contatto avuto con il Signore, devono ricevere lo stesso culto che riceve la croce, ma con una differenza: non rimandano a Cristo quanto all’immagine. Infatti san Tommaso dice: noi parliamo del Crocifisso, non parliamo, riguardo al Signore, del “Trapassato dalla lancia” o “Trapassato dal chiodo”. Facilmente, lo chiamiamo il Crocifisso, a indicare che la croce ha proprio una capacità di rinvio all’immagine stessa di Cristo, cosa che non ha ad esempio un chiodo della Passione, sebbene il chiodo rientri nello stesso culto di latria, in ragione del contatto.
Gli ultimi due articoli della quæstio 25 vengono dedicati alla Santissima Vergine e ai santi. Quale culto è dovuto alla Madre di Dio? Nell’art. 5 san Tommaso spiega: «Il culto di latria, essendo dovuto soltanto a Dio, non va attribuito ad alcuna creatura se s’intende onorarla per sé stessa. Ora, mentre le creazioni irrazionali non sono suscettibili di venerazione per sé stesse, lo sono invece le creature razionali» (III, q. 25, a. 5). Io non posso onorare una cosa in quanto cosa, una croce in quanto croce, un’immagine in quanto immagine, un oggetto in quanto oggetto, ma solo perché rimandano a; invece, la creatura razionale è suscettibile di venerazione per sé stessa. Ora, considerata in sé stessa, Maria Santissima non è Dio e dunque non le può essere offerto il culto di latria, di adorazione, ma – dice Tommaso – il culto di venerazione, «il culto di dulia soltanto, in modo superiore alle altre creature in quanto essa è la Madre di Dio. Si dice perciò che le è dovuto non un culto di dulia qualsiasi, ma di iperdulia» (ibidem). Quindi, dulia in quanto Maria SS. non è Dio, ma iperdulia in quanto si riconosce che ella ha un ruolo singolare non solo nel piano della Redenzione, ma anche del rapporto con Dio. Come dirà in un’altra quæstio san Tommaso, è elevata nell’ordine ipostatico: non è un’unione ipostatica come quella del Signore, evidentemente, perché la persona di Maria non è una persona divina, non c’è una natura divina, ma è stata elevata nell’ordine ipostatico in quanto è divenuta la madre del Verbo incarnato. Quindi, questa distanza che la pone al di sopra di ogni altra creatura fa sì che a lei sia dovuto appunto il culto di iperdulia.
L’art. 6, l’ultimo della q. 25, è interessante perché tocca un tema spesso molto contestato, anche in casa cattolica, ossia quello della venerazione delle reliquie dei santi. San Tommaso riporta l’obiezione di un prete, Vigilanzio (IV-V sec.), che fu oggetto dei fulmini e delle saette di san Girolamo nella sua Epistola 109. Vigilanzio sostanzialmente diceva che non bisogna venerare le reliquie dei santi perché significherebbe in qualche modo venerare i morti, come fanno i pagani, venerare delle cose, delle realtà insensibili, delle ceneri, dei pezzi di cadavere. Vediamo come san Tommaso spiega perché si possono venerare le reliquie dei santi. Anche qui è interessante il fatto che san Tommaso, richiamando una tradizione radicata, dica: «È noto che dobbiamo avere in venerazione i santi quali membra di Cristo, figli e amici di Dio e nostri intercessori. Perciò dobbiamo in loro ricordo venerare degnamente tutte le loro reliquie e principalmente i loro corpi che sono stati templi e strumenti dello Spirito Santo, il quale abitava e operava in essi, e sono destinati a configurarsi al corpo di Cristo nella gloria della risurrezione. Per cui Dio stesso onora convenientemente tali reliquie compiendo miracoli alla loro presenza» (III, q. 25, a. 6).
Due fatti. Il primo fatto è che i santi – non solo quelli canonizzati, ma in fondo tutti coloro che sono morti nella grazia di Cristo – sono membra di Cristo, templi dello Spirito Santo e il loro corpo, che riposa in attesa della risurrezione dei corpi, è stato tempio dello Spirito Santo. Tramite quel corpo hanno agito, hanno servito Dio e dunque noi li veneriamo nelle loro reliquie per questa ragione, in ragione di ciò che questi corpi sono stati e saranno. Secondo fatto: Dio stesso onora queste reliquie perché si degna di compiere miracoli attraverso di esse. Punto. Contra factum non valet argumentum. Cioè, Dio stesso onora le reliquie dei santi. In che modo? Concedendo miracoli non attraverso un’intercessione generale di questi santi, ma tramite un contatto con le loro reliquie, tramite la loro venerazione.
Anche da questo punto di vista, dunque, non si tratta di venerare cose in sé stesse, di venerare morti e ceneri, si tratta invece di venerare i corpi e gli oggetti di cui si sono serviti i santi in questa vita. In forza di che cosa? Del fatto che Dio stesso ha abitato in loro, Dio stesso è stato servito in loro, ha operato tramite loro e continua a operare tramite queste reliquie, ora che le anime non sono più unite a quei corpi che noi veneriamo come reliquie.
Torniamo alla diatriba tra Vigilanzio e san Girolamo, che scrisse una lettera molto “libera”, molto polemica, a cui seguì poi uno scritto dedicato al tema, Adversus Vigilantium, altrettanto piccato. In questi scritti san Girolamo respinge con grande veemenza le obiezioni di Vigilanzio e dice: «Non vogliamo servire delle creature al posto del Creatore che è benedetto nei secoli. Le reliquie dei martiri le onoriamo per adorare il Dio per il quale essi si sono fatti martiri [vedete dunque sempre il riferimento a Dio]. Onoriamo i servi affinché l’onore che diamo ai servi ridondi sul loro Padrone che ha detto: “Chi accoglie voi, accoglie me”. Ma sarebbero dunque impure le reliquie di Pietro e Paolo? [Impure perché non devono essere venerate secondo Vigilanzio, in quanto cadaveri] Sarebbe dunque immondo il corpo di Mosè che secondo il testo ebraico autentico fu seppellito personalmente dal Signore? Dunque, ogni volta che entriamo nelle basiliche degli apostoli, dei profeti e di tutti i martiri, ogni volta, dico, noi veneriamo secondo loro templi di idoli? Dunque i ceri accesi davanti alle loro tombe sarebbero emblemi idolatrici? Cosa potrei dire di più grosso che possa andare a segno sulla testa di chi ha messo fuori quelle idee in modo che un cervello pazzoide o gli si guarisca una buona volta o gli si sconvolga del tutto, così non potrà più mettere sossopra le anime dei semplici con le sue madornali bestemmie?». Vedete, i toni sono molto forti, vi risparmio il resto che è anche più forte.
A un certo punto san Girolamo dice anche: «Mi stupisco che il santo vescovo della diocesi in cui si dice che Vigilanzio sia prete non reagisca alla sua pazzia e non spezzi con la sua verga apostolica, con la sua verga di ferro quel vaso inutile, abbandonandolo alla morte della carne per salvarne l’anima». Evidentemente, non intervenire o intervenire tardi sulle eresie è una cosa con cui la Chiesa ha sempre avuto a che fare... A noi interessa soprattutto questo aspetto: san Girolamo mette davanti una prassi della Chiesa, ne motiva le ragioni e dunque respinge tutte quelle obiezioni, anche oggi molto in voga, di chi ritiene che l’importante sia pregare i santi ma non venerarne le reliquie; l’importante sia accedere ai sacramenti e non fare pellegrinaggi sulle tombe dei santi, eccetera. Il che, d’altra parte, non significa evidentemente esagerare correndo sempre qua e là e trascurando la vita cristiana normale. Queste obiezioni, un po’ incredule, di chi critica queste pratiche come se fossero quasi superstizioni sono sempre state presenti e sempre ritorneranno, ma l’importante è conoscere, avere le ragioni di questa pratica veneranda della Chiesa.
Il culto di Cristo
A Cristo dobbiamo un culto di latria, cioè di adorazione: lo stesso vale per la croce e le sue immagini, in quanto rimandano a Lui. Il vero senso del divieto dell’Esodo (20,4) e l’Incarnazione. Il culto di iperdulia dovuto a Maria. Perché venerare le reliquie dei santi: S. Girolamo e S. Tommaso rispondono.
Il sacerdozio di Cristo – Il testo del video
Il sacerdote è colui che “media” tra Dio e gli uomini, perciò il sacerdozio è connaturale a Cristo, il mediatore perfetto. I tre scopi del sacrificio. Sacerdozio levitico e sacerdozio «secondo l’ordine di Melchisedech»: la spiegazione di san Tommaso. Le mediazioni subordinate.
La sottomissione e la preghiera di Cristo – Il testo del video
La verità delle due nature nell’unica persona del Verbo consente di capire anche i passi più “difficili” del Vangelo. San Tommaso spiega perché Cristo, nella sua natura umana, è sottomesso al Padre. E perché prega. La verità dimenticata sulla preghiera: atto di ragione.