Il Cristo risorto – Il testo del video
Che differenza c’è tra il corpo di Gesù prima e dopo la risurrezione? La gloria. Il corpo glorioso: reale, tangibile, agile, totalmente soggetto allo spirito. Come interpretare certi dettagli dei Vangeli? Scopriamolo con san Tommaso d’Aquino.

Proseguiamo con le questioni della terza parte della Summa Theologiæ relative alla risurrezione di Cristo. Come anticipato la scorsa volta, oggi vediamo la quæstio 54 che tratta delle qualità del corpo risorto. In sostanza, si tratta di dire com’era fatto questo corpo. I Vangeli ci danno degli elementi: Gesù passa a porte chiuse, a volte viene riconosciuto, a volte no, mangia. Allora, com’era questo corpo di Gesù risorto e perché era così?
La quæstio 54 è composta da quattro articoli. Il primo articolo risponde alla domanda relativa all’identità tra il corpo risorto del Signore e quello che aveva prima della risurrezione. Cioè, ci si chiede: è lo stesso corpo? È un vero corpo o è un corpo apparente? La seconda domanda, collegata alla prima: questo corpo è integro? Ha tutti gli elementi costitutivi di un vero corpo? Ancora: si tratta di un corpo glorioso? E cosa vuol dire questo? In ultimo, perché sono presenti piaghe, cicatrici nel corpo risorto del Signore?
Iniziamo con l’art. 1, che si può riassumere molto sinteticamente così: se la risurrezione è reale, anche il corpo deve essere reale. La realtà del corpo risorto è legata alla realtà della risurrezione. Detto ancora in altro modo: se il corpo risorto del Signore non fosse un corpo reale, non avremmo una vera risurrezione.
Leggiamo prima il sed contra dell’art. 1. Ricordo che nella strutturazione della Summa, il sed contra ci riporta un’autorità che fonda la risposta. E nel sed contra san Tommaso scrive: «Nel Vangelo si dice che quando Cristo apparve ai discepoli, “essi, stupiti e spaventati, credevano di vedere un fantasma” (Lc 24, 37), cioè come se egli avesse un corpo non reale, ma immaginario. Per togliere questa idea, egli stesso aggiunge: “Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho” (Lc 24, 39). Quindi egli non aveva un corpo immaginario, ma reale» (III, q. 54, a. 1, s.c.). Non è una pura formalità questo sed contra; san Tommaso ci sta dicendo una cosa importantissima: nelle sue manifestazioni da risorto, il Signore vuole prima di tutto rassicurare i discepoli che il suo è un vero corpo ed è il suo corpo. Dunque, questo non lo si comprenderebbe se non fosse vero l’assunto che abbiamo appena detto: la realtà del corpo risorto testifica la realtà della risurrezione. È per questo che il Signore ci tiene che i suoi discepoli, che dovranno poi testimoniare la sua risurrezione in tutto il mondo e fondare la fede della Chiesa, constatino con lo sguardo e con il tatto che si tratta di un vero corpo.
Nel corpo dell’articolo, Tommaso scrive: «Perché dunque la risurrezione di Cristo fosse reale, era indispensabile che il medesimo corpo si riunisse all’identica anima. E poiché la realtà o verità di un corpo deriva dalla sua forma, è evidente che il corpo di Cristo dopo la risurrezione era un vero corpo e dell’identica natura di prima. Se infatti il suo fosse stato un corpo immaginario, la risurrezione non sarebbe stata vera ma apparente» (III, q. 54, a. 1, co.). Che cos’è la risurrezione? È la riunificazione dell’anima con il corpo, della propria anima con il proprio corpo, non con un altro corpo; altrimenti si tratterebbe di una sorta di reincarnazione. La risurrezione ci dice invece proprio l’identità di un corpo, che è della stessa natura del corpo precedente. Vedremo in che cosa varia. Questo è un po’ il nucleo dell’art. 1.
Altrettanto importanti sono le obiezioni che san Tommaso presenta e le risposte che dà. La prima riguarda l’ingresso del Signore a porte chiuse nel Cenacolo, la sera stessa di Pasqua e poi anche otto giorni dopo, per mostrarsi anche all’apostolo Tommaso, che era assente la prima volta. San Tommaso d’Aquino scrive: «Per il momento basterà dire che si deve non alla natura del corpo bensì alla virtù della divinità ad esso unita se il corpo di Cristo, pur essendo reale, entrò dai discepoli a porte chiuse» (III, q. 54, a. 1, ad 1). In sostanza, san Tommaso qui ci sta dicendo: il fatto che Cristo fosse entrato a porte chiuse non dipende propriamente dalla natura del corpo risorto, come se fosse una sorta di corpo immateriale, ma dipende dalla virtù divina. Noi sappiamo che il corpo del Signore era unito ed è unito – perché non è mai stato separato – con la divinità. Dunque, è in virtù della divinità che Egli miracolosamente può passare per le porte chiuse del Cenacolo, non propriamente per la natura del corpo risorto. San Tommaso scrive «per il momento basterà dire», perché dedicherà una questione alla qualità dei corpi risorti in generale, quindi non a quello nello specifico del Signore; più avanti, lo vedremo nel Supplemento della Summa, quando parleremo della risurrezione della carne. Intanto ci basti questo.
La seconda obiezione prende le mosse dall’asserto del capitolo 24 del Vangelo di Luca, che racconta l’apparizione di Gesù ai discepoli di Emmaus. Ricordate che, dopo aver spezzato il pane, Gesù svanì dai loro occhi. Questo sembrerebbe suggerire che non si trattava di un corpo reale: un corpo reale non può sparire. Ora, san Tommaso risponde in modo diverso. Mentre il passare a porte chiuse è facoltà di un corpo unito alla divinità, non propriamente di un corpo risorto, lo svanire dagli occhi di qualcuno è una proprietà del corpo risorto.
Vediamo come argomenta Tommaso: «La condizione propria di un corpo glorioso è quella di essere spirituale, cioè soggetta allo spirito. Ma perché il corpo sia del tutto soggetto allo spirito si richiede che ogni atto del corpo sia sottoposto alla volontà dello spirito» (III, q. 54, a. 1, ad 2). Un corpo spirituale è totalmente sottoposto alla volontà dello spirito, cosa che noi constatiamo non essere per il nostro corpo, che non è propriamente soggetto a tutto ciò che lo spirito gli comunica, anzi molto spesso in qualche modo si contrappone allo spirito. «La visibilità di una cosa (…) dipende dall’azione di un oggetto visibile sulla vista. Perciò chi possiede un corpo glorificato ha in suo potere di farsi e non farsi vedere a suo piacimento. (…) Quando si dice che Cristo disparve dagli occhi dei discepoli, ciò va inteso non nel senso che il suo corpo venisse distrutto o si risolvesse in qualcosa di invisibile, ma nel senso che per sua volontà cessava di diventare visibile a loro, o restando lì presente o anche allontanandosi all’istante mediante l’agilità» (ibidem).
Quindi, qui san Tommaso ci dice già qualcosa in più: i corpi gloriosi hanno la caratteristica innanzitutto di essere totalmente soggetti allo spirito, il quale in sostanza può dire al corpo “mostrati visibilmente o non mostrarti”; ancora, hanno l’agilità, cioè la possibilità di allontanarsi all’istante senza percorrere il faticoso moto locale che noi sperimentiamo in questo corpo mortale, non glorioso.
La terza obiezione trae spunto dal Vangelo di Marco (16, 12), dove si dice che Cristo apparve ai discepoli «sotto altro aspetto». Cosa vuol dire «sotto altro aspetto»? Uno potrebbe pensare che apparire sotto altro aspetto significhi apparire non con il proprio corpo reale, perché un dato corpo ha un aspetto solo. Allora, qui Tommaso recupera un testo di san Pietro Crisologo [che Tommaso attribuisce a Severiano], che dice: «Il suo aspetto mutò divenendo da mortale immortale, acquistando cioè l’aspetto della gloria, non già perdendo la sostanza delle proprie fattezze». E commenta Tommaso: «Tuttavia a quei discepoli di cui qui si parla egli non apparve nel suo aspetto glorioso, ma com’era in suo potere di rendere il proprio corpo visibile o invisibile, così era in suo potere di far sì che la propria figura apparisse in forma gloriosa o non gloriosa, oppure in una forma intermedia o in qualsiasi altro modo» (III, q. 54, a. 1, ad 3).
Una proprietà del corpo spirituale è anche quella di potersi mostrare in modalità un po’ diverse rispetto a quelle che erano precedentemente, oppure, dice Tommaso, è anche possibile che la differenza di cui si parla nel Vangelo fosse tra corpo glorioso e corpo non glorioso. Tra corpo glorioso e corpo non glorioso c’è una differenza di aspetto tale per cui chi guarda potrebbe non riconoscere la persona, non perché è un altro corpo, ma perché è un’altra manifestazione. Facciamo un esempio, per capirci. Anche all’interno di un corpo mortale ci sono delle modifiche per cui una persona può non riconoscerti più; non mi riferisco solo alla differenza tra quando uno è bambino e poi diventa adulto, ma anche quando nell’arco della vita passano vent’anni: rivedi una persona e ti chiedi: “ma è lui o non è lui?”. Ci sono delle modifiche che rendono il corpo – in questo caso chiaramente il corpo mortale – differente. Eppure è lo stesso corpo, non è il corpo di un altro.
Nell’art. 2 san Tommaso si chiede appunto se il corpo di Cristo fosse glorioso e perché doveva essere glorioso questo corpo. Anzitutto, cosa vuol dire corpo glorioso? Che differenza c’è tra un corpo glorioso e un corpo mortale? Vuol dire che nel corpo glorioso l’anima, che gode della visione beatifica, diffonde sul corpo la sua gloria. Il corpo glorioso indica proprio questa diffusione della gloria che invade l’anima con la visione beatifica che viene appunto “trasferita”, che ridonda nel corpo e quindi dona al corpo alcune caratteristiche particolari che avremo modo di vedere.
E san Tommaso ci dice: «Il corpo di Cristo risorto era glorioso. Ciò risulta evidente da tre motivi. Primo, perché la risurrezione di Cristo fu l’esemplare e la causa della nostra risurrezione» (III, q. 54, a. 2, co.). Ricordate l’apostolo Paolo che dice che ciò che è seminato corruttibile, risorge incorruttibile, ciò che si semina materiale risorge spirituale, eccetera (cf. 1Cor 15, 41-44).
Quindi, la risurrezione di Cristo è anzitutto l’esemplare, l’archetipo delle risurrezioni dai morti, di tutte le altre risurrezioni gloriose che avverranno alla fine dei tempi o di quelle già avvenute, come nel caso dell’Assunzione della Vergine Maria. Non è solo l’esempio, l’exemplum, ma è anche la causa della risurrezione dei nostri corpi.
«Secondo, perché con l’ignominia della passione egli meritò la gloria della resurrezione» (ibidem). Di questo abbiamo già parlato in altre catechesi, non mi soffermo ulteriormente. «Terzo, poiché l’anima di Cristo, fin dal momento della sua concezione, era già gloriosa per la perfetta fruizione della divinità. Ed era solo per una dispensa che la gloria non ridondava sul suo corpo affinché egli potesse compiere il mistero della nostra redenzione con la sua sofferenza. Una volta compiuto dunque il mistero della passione e della morte di Cristo, l’anima subito diffuse la sua gloria sul corpo che aveva riassunto nella risurrezione. E così quel corpo divenne glorioso» (ibidem). Quest’ultima ragione è importante, vi rimando a quelle catechesi in cui abbiamo parlato dell’anima del Signore. Ricordo brevemente che l’anima del Signore ha sempre goduto della visione beatifica, ma il Signore stesso ha impedito all’anima di far ridondare questa visione sul suo corpo, perché altrimenti il mistero della nostra redenzione attraverso la passione e morte di Cristo non sarebbe stato possibile, perché il corpo di Cristo sarebbe già stato un corpo immortale, un corpo glorioso.
Dunque, non solo Gesù ha meritato, ma addirittura appartiene alla sua natura di uomo-Dio il fatto di far ridondare l’anima sul corpo: è stato solo per una volontà espressa, un “divieto” per compiere la Redenzione, che l’anima, negli anni della vita mortale del Signore, non ha glorificato il corpo.
Ora, ci sono due obiezioni interessanti. La prima: se il corpo è glorioso, vuol dire che il corpo è ormai incorruttibile, perché la gloria dell’anima avvolge, penetra questo corpo, lo rende immortale e quindi incorruttibile: immortalità e incorruttibilità sono due aspetti profondamente legati. Ma se era incorruttibile, verrebbe da dire, allora doveva essere anche impalpabile; e se era incorruttibile, allora non doveva mangiare. Noi sappiamo che si mangia precisamente per mantenere in vita il corpo; cibarsi è proprio una trasformazione della materia esterna per sostenere il corpo. Dunque, come rispondere a questa obiezione?
Nella risposta alla seconda obiezione dell’art. 2, che è la prima che abbiamo sollevato qui, san Tommaso scrive: «Il corpo di Cristo dopo la risurrezione era composto dei quattro elementi, con tutte le qualità tangibili richieste dalla natura del corpo umano: quindi per natura era palpabile. E se non avesse avuto altro, al di là della natura umana del corpo, sarebbe stato anche corruttibile» (III, q. 54, a. 2, ad 2). I quattro elementi sono quelli della visione aristotelica e della medicina ippocratica, cioè: la bile nera, la bile gialla, il flegma e il sangue. Ora, san Tommaso ci dice che se mancano questi quattro elementi non abbiamo un vero corpo e, quindi, in Cristo erano presenti «con tutte le qualità tangibili richieste dalla natura del corpo umano»; vero corpo vuol dire questo, vuol dire anche tangibilità, vuol dire anche presenza degli elementi strutturali della corporeità.
E ci dice anche: se la natura umana fosse stata solo il corpo, allora il corpo stesso «sarebbe stato anche corruttibile». Perché invece non era più corruttibile questo corpo vero, reale, con tutti i quattro elementi, con la sua tangibilità? Perché non era corruttibile? Lo abbiamo appena detto: perché è l’anima gloriosa che lo rende incorruttibile. Infatti, prosegue san Tommaso: «Aveva qualcos’altro che lo rendeva incorruttibile», cioè «la gloria che ridondava dalla sua anima beata». E poi cita san Gregorio Magno: «Dopo la risurrezione il corpo di Cristo si mostra identico nella natura ma differente nella gloria». Questa è la frase centrale: identico nella natura, cioè un vero corpo, il suo corpo, non un altro corpo. Ma che differenza c’è tra il corpo del Signore prima della risurrezione e quello dopo? La gloria. Nella prima fase della sua corporeità, Cristo non aveva un corpo glorioso: la gloria di cui già la sua anima godeva non riverberava nel corpo e dunque non lo rendeva incorruttibile. Dopo, invece, questa gloria rende il corpo incorruttibile. Quindi, «identico nella natura, differente nella gloria».
Ancora, il fatto di cibarsi di qualche cosa, come attestano i Vangeli, non era – ci dice san Tommaso, sulla scorta di sant’Agostino e di buona parte degli altri Padri – per una necessità di mantenersi in vita, ma era «per dimostrare la natura del corpo risorto». Il Signore mangia davanti ai discepoli non perché ne avesse necessità, ma per convincere loro che si trattava di un corpo reale; perché nella nostra esperienza un corpo è reale quando lo posso toccare e anche quando mangia; quando lo vediamo mangiare, deglutire, digerire, sappiamo di essere di fronte a un vero corpo, non è fittizio. Un fantasma non si ciba di nulla, quindi Gesù risorto mangia proprio per confermare la fede dei discepoli sul fatto che sono di fronte a un vero corpo, e non per la necessità di un corpo corruttibile di mantenersi in vita.
Nell’art. 3 si parla invece dell’integrità del corpo risorto. Anche qui vale il principio: se è un vero corpo, è un corpo integro. Cosa vuol dire integro? Vuol dire che ha tutte le caratteristiche di un corpo, tranne la corruzione. La vera differenza tra il corpo mortale e il corpo glorioso è nella corruzione, nella corruttibilità del primo e nell’incorruttibilità del secondo. Scrive Tommaso: «Ora, è evidente che alla natura del corpo umano appartengono la carne, le ossa, il sangue e ogni altra realtà del genere. Quindi tutte queste cose si trovano nel corpo di Cristo risorto e anche integralmente senza alcuna diminuzione» (III, q. 54, a. 3). Non è un caso questa espressione; anche nel Vangelo il Signore dice che «un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho», a indicare che il suo corpo è un corpo integro, in tutte le sue parti. Ha le ossa, la carne, il sangue, gli organi, eccetera.
Sant’Agostino dà appunto questo criterio: «Qualunque cosa uno voglia aggiungere a un corpo glorioso stia attento ad escludere la corruzione. Ci sia la fisionomia, ci sia il moto, ma senza la fatica. Ci sia la facoltà di mangiare, ma senza il bisogno della fame». Cioè, le facoltà sono private delle note della loro corruzione, che sono quelle che noi chiaramente sperimentiamo nel nostro corpo mortale.
Faccio una precisazione. Da dove nasce questa corruzione? San Tommaso ha detto che nell’integrità del corpo i suoi quattro elementi devono essere presenti. Ora, la corruzione del corpo, e dunque la malattia, che è un segno chiarissimo di questa corruzione, non nasce dalla presenza dei quattro elementi. Uno potrebbe dire: “se ci sono questi quattro elementi, c’è anche la malattia che deriva da questi quattro elementi”. San Tommaso dice no, perché non sono i quattro elementi che danno la malattia, ma è lo squilibrio dei quattro elementi che genera la malattia: questa è la visione ippocratica; ma non solo, perché la troviamo nella medicina tradizionale cinese, nell’ayurveda. Tutte le medicine antiche hanno questa concezione: non è ciò che è presente nella natura corporea dell’uomo a portare alla malattia, ma è lo squilibrio delle sue parti.
Nell’art. 4 ci si domanda invece che n’è delle piaghe del Signore, delle sue cicatrici, delle stigmate. Il Vangelo è chiarissimo. Prendiamo il Vangelo di Giovanni (20, 27), quando Tommaso si trova davanti al Signore, Gesù gli dice: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Uno potrebbe pensare: “Abbiamo appena detto che il corpo del Signore doveva essere integro, ma qui troviamo delle menomazioni, perché le ferite, le piaghe sono delle menomazioni del corpo”. E qui san Tommaso risponde citando due autorità a cui spesso fa riferimento, cioè san Beda e sant’Agostino. Perché è stato conveniente che Cristo riprendesse il corpo con queste piaghe come attesta il Vangelo di Giovanni? Primo, «egli conservò le cicatrici non per incapacità di sanarle, ma “per portare in perpetuo il trionfo della sua vittoria” [S. Beda]» (III, q. 54, a. 4). E citando Agostino dice: «Non si tratta di deformità, bensì di dignità». Cioè, quelle piaghe sono dei trofei; non sono più piaghe di dolore, non sono più piaghe di infermità, ma sono trofei. Nell’arte queste piaghe vengono spesso rappresentate come fonti di luce. Che cos’è questa immagine? È proprio l’idea del fatto che anche queste piaghe sono ormai gloriose e quindi diventano il segno del trionfo di Cristo, non della sua debolezza o della sua passibilità.
«Secondo, per confermare nella fede della sua risurrezione il cuore dei suoi discepoli» (ibidem). Perché la fede nella risurrezione? Perché le piaghe permettevano di vedere l’identità del corpo: si trattava dello stesso corpo che avevano visto fino a pochi giorni prima e portava in sé appunto questo “sigillo” che certificava che non era un altro corpo, ma era lo stesso.
«Terzo, “per mostrare continuamente al Padre, quando supplica per noi, quale genere di morte abbia sofferto per noi”» (ibidem). Quindi, le piaghe sono come il memoriale perpetuo davanti al Padre dell’opera di mediazione, di intercessione, di redenzione del Signore. «Quarto, “per far capire ai fedeli redenti dalla sua morte con quanta misericordia sono stati soccorsi mostrando le vestigia della morte medesima”» (ibidem). Gesù risorto conserva le piaghe per noi, per mostrarci il prezzo del nostro riscatto e l’infinita bontà e misericordia di Dio.
«Infine, “per denunciare nel giudizio finale quanto giustamente essi siano eventualmente condannati”» (ibidem). Per chi crede, per chi è salvato, le piaghe sono il segno della gratitudine infinita. Per chi non crede e per chi viene condannato, le piaghe sono il segno della giustizia divina. Di fronte a quelle piaghe nessuno potrà dire a Dio “tu non hai fatto abbastanza per salvare me”; ogni dannato dovrà riconoscere che la causa della propria dannazione risiede esclusivamente in sé stesso e non in Dio. Dunque, vedete quanta ricchezza in questo dettaglio delle apparizioni del Signore.
La prossima volta vedremo proprio il senso e la convenienza delle diverse apparizioni del Risorto.
Il Cristo risorto – Il video
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