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Il Credo sia l'inno dei cattolici, di Vittorio Messori

È singolare: proprio la Chiesa che chiama se stessa universale per eccellenza manca ormai di segni che esprimano questa universalità, di cui avrebbe bisogno. Il Credo, cantato in latino, potrebbe e dovrebbe essere questo segno. Se solo la Santa Sede lo volesse.... (Da Emporio Cattolico, SugarCo 2006)

Catechismo 12_12_2021

Pubblichiamo un articolo tratto dai "Vivaio" scritti da Vittorio Messori e raccolti in cinque volumi pubblicati dall'editrice SugarCo. Quello che segue è tratto dal volume Emporio Cattolico, 2006. 

È singolare: proprio la Chiesa che chiama se stessa "universale" per eccellenza manca ormai di segni che esprimano questa universalità. In effetti, giusto negli ultimi decenni sono venuti in meno praticamente tutti i segni di riconoscimento dei cattolici: a cominciare, naturalmente, dalla lingua liturgica. Ma anche altri millenari "marchi di identità" sono stati aboliti dalla gerarchia stessa: dal “magro” del venerdì (che distingueva i cattolici da ogni altra confessione) al capo coperto delle donne in chiesa, sino all'abito dei preti e dei religiosi.

Così non ha fatto, ad esempio, l'islam, che terrà sempre duro sull’arabo classico come sola lingua per il culto, ovunque questo si svolga, e non transigerà sulle prescrizioni alimentari di e stiamo, a cominciare da quelle femminili. Gli Stati e i grandi movimenti politici, poi, hanno quei "segni identitari" che la Chiesa cattolica non ha più o non ha mai avuto: hanno, ad esempio, bandiere e inni attorno ai quali cittadini e militanti si riuniscono e si sentono uniti.

Si può, anzi si deve, essere perplessi sui "valori" che esprimono, ma è certo - per fare solo tre esempi - che la Francia non sarebbe la Francia senza La Marseillaise, che la Gran Bretagna non sarebbe tale senza la Union Jack, il vessillo che ha sventolato su ogni mare, e che il movimento comunista non sarebbe durato oltre un secolo senza la falce e martello e senza il canto dell'Internazionale, che dava un senso di fratellanza ai militanti di tutto il mondo.

La Chiesa non ha una bandiera (quella bianco-gialla non ha un significato religioso ma politico, essendo quella di uno stato, la Città del Vaticano) e non ha nemmeno un “logo”: lo hanno, invece, tutte le multinazionali industriali e commerciali, dalla stella a tre punte della Mercedes alla M delle hamburgerie McDonald's. Per distinguersi dalle altre confessioni cristiane, la Catholica non ha nemmeno una forma particolare di croce, visto che quella che è detta “latina” in realtà non le è specifica.

Tutto questo non è irrilevante: la Chiesa è un mistero e al contempo un popolo, il popolo di Dio, e ogni popolo ha bisogno di segni riconoscibili, attorno ai quali stringersi e nei quali identificarsi. Non vi è nulla di incongruo o di blasfemo nel desiderarli: anzi, cercare di trovarli o ritrovarli è un modo per prendere sul serio la logica dell'Incarnazione. Ed è anche un modo per prendere sul serio l'esortazione di Gesù a imparare dalla furbizia dei "figli del secolo": questi, in quanto politici o mercanti, hanno capito bene che "marchi" riconoscibili - di ideologia come di merci - vengono incontro a un'esigenza umana fondamentale.

C'è dunque un problema del quale i cattolici dovrebbero essere consapevoli. E sul quale la gerarchia dovrebbe riflettere, ripristinando, magari, alcuni "segni identitari" aboliti (o, un po' ipocritamente, resi "facoltativi", ben sapendo che questo si sarebbe risolto in abolizione: il magro al venerdì docet). Certo, a parte ogni considerazione teologica e pastorale, sul piano concreto non è ipotizzabile un ritorno all'unica lingua liturgica per la Chiesa romana. Parlo con conoscenza di causa: 8 anni di latino, dalle medie inferiori alla fine del liceo, mi hanno dato l'amore ma non la padronanza piena di quell’idioma, la cui bellezza è pari alla sua difficoltà. Tra l'altro, le ultime generazioni di preti sono state ordinate senza che la conoscenza o meno del latino costituisse un elemento discriminante. Bene o male che la si giudichi, la liturgia in "volgare" è ormai, realisticamente, un punto di non ritorno.

Ciò che invece sarebbe praticabile, ci sembra, è il recupero, nella lingua che fu comune, del testo su cui si fondano la comunità dei fedeli e l'unità della Chiesa: il Simbolo degli Apostoli, il Credo. Preparata da una spiegazione dei motivi, in modo che non appaia un diktat (che finirebbe con l'essere eluso), una disposizione della Santa Sede potrebbe indurre ogni parrocchia ovunque sia, a insegnare ai praticanti il canto del Credo in latino, con un’intonazione che potrebbe essere quella gregoriana, ma non necessariamente. L'importante sarebbe che fosse eguale in ogni comunità cattolica del mondo. Così, tutte le domeniche, si ricreerebbe un segno forte di unità tra i fratelli sparsi su tutta la terra.

La riforma liturgica, con le sue lingue vive, non sarebbe messa in discussione ma, al contempo, il Credo in latino assicurerebbe la testimonianza di una storia due volte millenaria e concentrerebbe l'attenzione su ciò su cui si fonda la fede che i cattolici professano.
Non solo: proprio questo testo, che non a caso è indicato come Simbolo degli Apostoli, una volta conosciuto da ogni praticante, potrebbe diventare l'inno della Chiesa stessa. Quali parole ne sarebbero più degne? Sta di fatto che, almeno nel canto del Credo, i cattolici supererebbero l'afasia e l'incomunicabilità che attualmente li colpisce.