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ISLAM

Il coraggio di Ayaan, la viltà dell'Occidente

Ayaan Hirsi Ali, somala, nata musulmana, rischia tuttora di essere uccisa per apostasia. Saggista e autrice di Submission, il film per cui il regista Theo Van Gogh ha perso la vita, continua ad essere discriminata anche in Occidente.

Libertà religiosa 24_04_2014
Ayaan Hirsi Ali

“Voi meritate ricordi migliori dell'11 settembre e dell'attentato alla maratona di Boston”: avrebbe detto Ayaan Hirsi Ali agli studenti della Brandeis University di Boston nel ricevere la laurea honoris causa, a pochi giorni dallo svolgimento dell’edizione 2014 della competizione. Nel 2013, come si ricorderà, due bombe sono esplose in prossimità del traguardo della maratona uccidendo diverse persone e ferendone più di 100.

Ayaan Hirsi Ali è la donna somala, musulmana, che nel 2004 ha osato scrivere il testo di un cortometraggio intitolato Submission, realizzato dal regista olandese Theo Van Gogh, in cui si racconta la storia di cinque donne islamiche vittime di abusi e maltrattamenti inflitti nel nome di Allah e nel rispetto della legge coranica. Fu un’offesa intollerabile per gli integralisti islamici. Due mesi dopo l’uscita di Submission Theo Van Gogh pagava il suo ardire con la vita: un immigrato marocchino gli tese un agguato per strada, in pieno giorno, ad Amsterdam, lo uccise con quattro colpi di pistola, lo sgozzò e gli affondò nel corpo un coltello con infilata nella lama una lettera di cinque pagine destinata ad Ayaan e contenente una fatwa, una sentenza islamica che la condannava a morte.

L’edizione 2014 della maratona di Boston si è svolta il 21 aprile senza incidenti. Ma Ayaan Hirsi Ali non ha mai pronunciato il suo discorso alla Brandeis University perchè, su pressione di docenti e studenti indignati per la sua “islamofobia”, le autorità accademiche hanno deciso di non conferirle il titolo. «Noi occidentali – si riprometteva di dire agli studenti Hirsi Ali a proposito delle rivendicazioni delle donne nei paesi islamici – dobbiamo offrire la giusta dose di aiuto (...) dobbiamo ritornare alle nostre radici diventando ancora una volta il faro del libero pensiero e della libertà del Ventunesimo secolo. Davanti a un’ingiustizia dobbiamo reagire, non soltanto con la condanna, ma con azioni concrete. Uno dei posti migliori per farlo è nei nostri istituti di istruzione superiore. Dobbiamo rendere le nostre università dei templi non dell’ortodossia dogmatica, ma del vero pensiero critico, dove tutte le idee sono le benvenute e dove il dibattito civile è incoraggiato. Sono abituata a essere fischiata nelle università per cui sono grata dell’opportunità di potervi parlare oggi. Non mi aspetto che tutti voi siate d’accordo con me, ma apprezzo tantissimo la vostra apertura all’ascolto. Sono qui davanti a voi come qualcuno che sta combattendo per i diritti delle donne e delle ragazze in tutto il mondo. E sono davanti a voi come qualcuno che non è spaventato di fare domande scomode sul ruolo della religione in questa battaglia. La connessione tra la violenza, soprattutto la violenza contro le donne, e l’islam è troppo chiara per essere ignorata. Non aiutiamo gli studenti, le università, gli atei e i credenti quando chiudiamo gli occhi davanti a questa connessione, quando cerchiamo scuse anziché riflettere. Per questo domando: il concetto di guerra santa è compatibile con il nostro ideale di tolleranza religiosa? È blasfemia – punibile con la morte – mettere in discussione l’applicazione alla nostra era di certe dottrine risalenti al Settimo secolo? Sia il cristianesimo sia l’ebraismo hanno avuto le loro riforme. È arrivato il tempo anche per una riforma dell’islam. Queste argomentazioni sono inammissibili? Di certo non dovrebbero esserlo in un’università che è stata  fondata dopo lo scandalo dell’Olocausto in un tempo in cui molte università americane ancora imponevano restrizioni agli studenti ebrei. Il motto della Brandeis University è “La verità, anche quella più inaccessibile”. È anche il mio motto».

Nel 2004 tutto il mondo occidentale è insorto contro l’uccisione di Theo Van Gogh e la condanna a morte di Ayaan. A lei che, immigrata nel 1992 in Olanda, all’epoca era cittadina olandese e deputato per il Partito Socialdemocratico fu data una scorta e il conforto di innumerevoli manifestazioni di solidarietà. Submission fu proiettato in tutto il mondo occidentale. Ma due anni dopo, nel 2006, il ministero dell’Immigrazione olandese, con il pretesto di dati errati contenuti nella sua richiesta di cittadinanza presentata nel 1997, decise di considerare nullo l’atto di naturalizzazione di Ayaan Hirsi Ali. Le furono concesse sei settimane per presentare ricorso. Contemporaneamente un giudice emetteva una sentenza favorevole ai suoi vicini di casa che ne avevano sollecitato lo sfratto sostenendo di subire violazioni della loro privacy a causa delle misure di sicurezza adottate per proteggerla e di temere che la sua presenza mettesse a rischio la loro incolumità. La sentenza le ingiungeva di lasciare entro quattro mesi l’abitazione-rifugio messa a sua disposizione dallo stato per difenderla. Così Hirsi Ali decise di accettare un’offerta di lavoro dell’American Enterprise Institute di Washington e si trasferì negli Stati Uniti.

Quanto è successo alla Brandeis University, con l’aggravante da parte delle autorità accademiche di aver tentato di presentare la rinuncia all’onorificenza come una decisione concordata con Hirsi Ali, il che non è vero, è un segno dei tempi: e questa volta il mondo occidentale non si è levato in difesa di Ayaan, e dei propri ideali.

I due splendidi libri autobiografici scritti da Ayaan Hirsi Ali sono stati pubblicati in Italia da Rizzoli: Infedele, nel 2007, e Nomade, nel 2010. In essi Ayaan racconta la propria vita, dall’infanzia in Somalia – segnata dall’evento straziante dell’infibulazione impostale dalla nonna all’insaputa dei suoi genitori e dalle traversie della sua famiglia colpita dalla persecuzione del dittatore Siad Barre contro cui il padre di Ayaan combatteva – alle vicende che l’hanno portata in Arabia Saudita, Etiopia e Kenya, fino matrimonio impostole dal padre, all’atto liberatorio di sottrarsi al destino riservato alle donne come lei e ai successivi anni trascorsi in Europa e negli Stati Uniti: “Sapevo che era possibile una vita diversa – scrive Hirsi Ali in Infedele, ricordando l'inizio della sua nuova vita in Occidente – l’avevo letto sui libri e ora potevo vederla, annusarla nell’aria: il genere d’esistenza che avevo sempre voluto, con una vera istruzione, un vero lavoro, un vero matrimonio. Volevo diventare una persona, un individuo, con una vita propria”.

Il prezzo che ha pagato è elevatissimo. Il padre e la sua intera famiglia l’hanno rinnegata e ha perso la fede. Se adesso anche l’Occidente la rinnega, che cosa le resta? Forse il sostegno della comunità cristiana alla quale si appellava nell’introduzione a Nomade? “Ho avuto il piacere di incontrare cristiani il cui concetto di Dio è ben lontano da Allah – si legge nella sua introduzione al libro – questo Dio cristiano moderno è sinomìnimo di amore: i preti non predicano odio, intolleranza e discordia; questo Dio è misericordioso, non cerca il potere temporale e non è in competizione con la scienza; i suoi seguaci considerano la Bibbia un libro fatto di parabole, non di ordini tassativi a cui attenersi scrupolosamente. Il cristianesimo di amore e tolleranza resta uno dei più potenti antidoti dell’Occidente all’islam di odio e intolleranza”.