Il consenso alla concupiscenza - Il testo del video
Il nono e il decimo comandamento sono accomunati dalla necessità di colpire il desiderio disordinato. Se la concupiscenza è la conseguenza del peccato originale, quindi non è in se stessa peccato, la colpa sta nell'adesione a questo desiderio disordinato di ciò che è di altri, anche se non si tramuta in azione concreta (il furto e gli atti impuri).
Dedichiamo l’ultima riflessione ai Dieci comandamenti e ci occupiamo del Nono e del Decimo comandamento, che abbastanza tradizionalmente vengono trattati insieme. Infatti, questi due comandamenti hanno in comune di andare a colpire il desiderio. Ora cerchiamo di capire in che senso.
Se ricordiamo quel che san Giovanni ci dice nella sua Prima lettera (1 Gv 2,16), ci sono tre concupiscenze nell’uomo, che portano al peccato: «La concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita».
Ora, questi due comandamenti, il Nono e il Decimo, vietano e vanno a colpire alla radice due concupiscenze, cioè la concupiscenza della carne e la concupiscenza degli occhi. La formulazione di questi due comandamenti, come presa dal libro dell’Esodo, è la seguente: «Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). Lo stesso principio viene richiamato nel libro del Deuteronomio: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo» (Dt 5,21). Quindi, questi due comandamenti, il Nono e il Decimo, rispettivamente proibiscono il desiderare la donna del tuo prossimo e il desiderare le cose del tuo prossimo.
Cerchiamo bene di capire: 1) che cosa si intende quando, nella dottrina cristiana, si parla di concupiscenza, perché non è un concetto univoco; 2) capire che cos’è il peccato legato a questa concupiscenza.
Ci può aiutare a capire che cos’è la concupiscenza, di nuovo, san Tommaso. Il riferimento è sempre alla Somma Teologica e, in particolare, alla quaestio 85 della Prima secundae (I-II). San Tommaso ci spiega che il peccato originale non ha distrutto la natura umana: l’ha colpita, ma non l’ha distrutta. Invece, che cosa ha distrutto? Il peccato ha distrutto la cosiddetta giustizia originale. Vediamo in cosa consiste la giustizia originale, con le parole di san Tommaso: «La ragione dominava perfettamente le potenze inferiori dell’anima, ed essa stessa era sublimata dalla sua sottomissione a Dio» (q. 85, a. 3).
Vediamo dunque che questa giustizia originale - che è stata colpita a morte, distrutta dal peccato originale - era un ordine, l’ordine voluto da Dio. E cioè, le facoltà inferiori erano sottomesse alle facoltà superiori: san Tommaso parla di potenze inferiori dell’anima soggette alla potenza superiore dell’anima, la ragione; e la ragione sottomessa a Dio, sublimata - dice Tommaso - dalla sua sottomissione a Dio. Cioè, il bene proprio della ragione umana, perciò dell’uomo, la sua elevazione, la sua sublimazione sta in una sottomissione. Quella a Dio è quindi l’unica sottomissione che non abbassa l’uomo ma lo eleva, precisamente perché corrisponde all’ordine naturale dell’uomo. Ora, il peccato originale, come abbiamo detto, non distrugge la natura umana, ma distrugge questa giustizia originale. E che cosa causa?
Esso causa ciò che san Tommaso indica come le quattro ferite fondamentali:
1. la ferita della ragione, che è l’ignoranza, il vulnus ignorantie. Cioè, la ragione deve, in qualche modo, lavorare con fatica per uscire dalla sua condizione di ignoranza, cosa che non aveva prima della caduta. La virtù corrispondente (attenzione, non è solo un’ignoranza speculativa, è anche un’ignoranza pratica) che risana questo vulnus è la prudenza.
2. Poi abbiamo un’altra ferita che ha colpito la volontà, ossia il vulnus malitiae. Cioè, la volontà - che è fatta per il bene, è attratta dal bene - a un certo punto si piega, tende verso il male, viene ferita nella sua inclinazione. La virtù che risana questo vulnus è la giustizia.
3. Quindi abbiamo la sfera dell’irascibile, che è colpita dal cosiddetto vulnus fragilitatis, cioè la ferita della fragilità, della debolezza, per cui l’uomo di fronte al male o di fronte al bene da compiere non ha più “tono”, non ha più la forza che dovrebbe avere nel respingere il male e nel perseguire il bene, ma sperimenta una sorta di fragilità, di debolezza, di incostanza, di tedio, che diventa a volte, per esempio, il vizio dell’accidia. La virtù che risana questo vulnus è la fortezza.
4. E poi abbiamo il concupiscibile, cioè la nostra attrazione verso i beni sensibili, colpita dal vulnus concupiscentiae; il concupiscibile “diventa” concupiscenza e quindi questa attrazione verso i beni sensibili diventa del tutto sregolata, non risponde più al bene proprio della persona e all’ordine proprio della persona.
È questo il quadro della drammatica quadruplice ferita che abbiamo ereditato con il peccato originale. Ora, questo disordine è quello che san Paolo chiama la carne, in particolare il disordine del concupiscibile. Sono diversi i testi in cui san Paolo richiama questo contrasto fondamentale tra la carne e lo spirito; da una parte abbiamo la carne - che possiamo dire che è la natura priva della giustizia originale - e dall’altra parte abbiamo lo spirito che segue invece la logica di Dio. Tra queste due “nature” (carne e spirito), ci dice san Paolo, non c’è possibilità di conciliazione. Quando san Paolo parla della carne non parla del corpo, non parla della sfera biologica dell’uomo, ma parla di questo decadimento, con tutte le sue forze che spingono nella direzione opposta allo spirito.
La concupiscenza, questo vulnus concupiscentiae indica un moto, un’inclinazione dell’appetito sensibile, contrario al bene dell’uomo, a quelle che sono le “indicazioni” che dà la ragione, una ragione sana, formata. Tra la ragione e il concupiscibile si crea quindi una tensione, una rottura: il concupiscibile va - diciamo così - per i fatti suoi, in una direzione che non è più ordinata. Ora, lo stato di salute della sfera concupiscibile e quindi la virtù che sana questo vulnus concupiscentiae è la temperanza. Non mi soffermo sulla temperanza, perché ne abbiamo già parlato introducendo la virtù della castità, nella lezione 54.
Dunque, questo è il quadro, lo sfondo per capire il Nono e il Decimo comandamento. Possiamo dire che questi due comandamenti riguardano il punto di partenza di altri due, e cioè il Sesto e il Settimo: il Sesto - che proibisce l’adulterio, gli atti impuri, la fornicazione - e il Settimo, «non rubare», con tutta l’articolazione del comandamento che abbiamo già visto.
Il Nono e il Decimo colpiscono al cuore questi altri due comandamenti. Perché? Perché vanno in qualche modo a tagliare, a inibire il motore che porta poi agli atti concreti di lucro, furto, eccetera, e della lussuria. Dice san Giacomo, nella sua epistola: «Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce» (Gc 1,14). Chiarissimo. Attenzione a quest’altro passaggio: «Poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand’è consumato, produce la morte» (Gc 1,15). Ecco la catena. Questi due comandamenti, dunque, colpiscono al cuore la concupiscenza nel suo nascere, nel suo essere ancora, per così dire, “infante”, e cioè quando la concupiscenza si affaccia nel pensiero e nel moto del desiderio. Adesso cerchiamo di capire bene questo aspetto dei comandamenti.
La domanda che ci si può fare, allora è: se la concupiscenza è una ferita derivata dal peccato originale, dove sta la colpa? Perché è chiaro che se è una conseguenza, non può essere essa stessa una colpa. Infatti, non è la concupiscenza, cioè questa deviazione, ad essere una colpa: questa è la radice. Quand’è che diventa una vera e propria colpa questo desiderare - come ci dicono i comandamenti - le cose altrui e gli affetti altrui, quindi il marito o la moglie altrui? Diventano un peccato, come dice esplicitamente il Catechismo Tridentino al numero 354, quando c’è «il consenso dell’anima», cioè quando io, in qualche modo, acconsento a questo desiderio disordinato che avverto dentro di me; al punto che, se fossi nelle condizioni di fare un determinato atto, se non avessi “paura” di essere scoperto, se questa cosa non mi creasse degli incomodi, oppure se avessi “necessità”, lo farei. Ed è proprio quello che Gesù ci dice nella sua predicazione, nel grande Discorso della Montagna: «Avete inteso che fu detto “non uccidere” […]. Avete inteso che fu detto “non commettere adulterio”, ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla […]» (cf. Mt 5,21-28), ha già commesso peccato. Non è quindi il moto sensibile e basta, ma è quel consenso che noi interiormente diamo. Questo consenso interno che noi diamo si traduce poi in alcuni atti specifici che ancora non sono la consumazione vera e propria di quell’atto.
Il Catechismo, trattando il Nono comandamento, pone una coppia di opposti importante: cioè, alla concupiscenza viene contrapposta la purezza. «La purezza esige il pudore», ci dice il Catechismo al n. 2521. E aggiunge: «Esso [il pudore] è una parte integrante della temperanza. Il pudore preserva l’intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione».
Il pudore è proprio ciò che “strozza” la concupiscenza, le impedisce di divenire peccaminosa, impedisce alla nostra anima di dare un consenso. Perché? Perché il pudore, come abbiamo visto, è un custode: un custode che impedisce al nostro sguardo, al nostro desiderio, ai nostri gesti, al nostro modo di comportarci, di vestirci o anche - ahimè - di non vestirci di dare occasione ad altri e di “esprimere” una parte intima di noi stessi non più in conformità al nostro essere persone, cioè al nostro essere ordinati interiormente dalla virtù di temperanza, soprattutto per quanto riguarda la concupiscenza.
Ora, il Catechismo, da questo punto di vista, fa rientrare in questo comandamento anche il divieto di tutti quegli atteggiamenti che sono contro il pudore proprio o altrui. Ed è evidente che, come si può vedere dal n. 2523 in avanti, questo si gioca tantissimo dal punto di vista anche delle immagini che si guardano, che si trasmettono, che si comunicano.
E qui bisogna stare attentissimi perché lo standard, per così dire, del pudore si è talmente abbassato che, involontariamente, anche a noi sembra normale vedere certe cose o pubblicarle, trasmetterle, ma non è così. Bisogna sempre stare attenti a tarare il nostro standard non su noi o sul contesto, ma sul comandamento divino. Qui il Catechismo ci dice anche che la purezza «esige dai mezzi di comunicazione sociale un’informazione attenta al rispetto e alla moderazione. La purezza del cuore libera dal diffuso erotismo e tiene lontani dagli spettacoli che favoriscono la curiosità morbosa e l’illusione».
Chiaramente il Catechismo parla dei mezzi di comunicazione, ma tutti noi siamo i destinatari e quindi noi, a nostra volta, abbiamo non solo il diritto ma il dovere di non guardare certe cose, non favorirle e, a volte, fare anche delle rimostranze pubbliche, se necessario.
E poi, ovviamente, va considerata la cosiddetta permissività dei costumi: è un aspetto su cui qualcuno potrebbe sorridere e dare del “retrogrado”, ma è un fatto che anche il modo di vestirsi ha a che fare con questo comandamento e quindi bisogna essere prudenti e non esibire o lasciare intravedere più di quello che è concesso ed è tutelato dal pudore. Il pudore, chiaramente, è una parte della virtù di temperanza, quindi non è una cosa spontanea. Tante volte si sente questa obiezione: “A me non fa nessun effetto”. Ma il punto non è se a Tizio, a Caio o a Sempronio, fa effetto o no: il punto è acquisire una virtù che chiaramente nel contesto odierno è molto, ma molto minacciata. Chiaramente non bisogna finire in scrupoli eccessivi, però è importante rieducarsi, farsi rieducare e reimparare tante cose che abbiamo oggettivamente perduto.
Per quanto riguarda, invece, il desiderio delle cose altrui, il comandamento non proibisce un desiderio legittimo di qualcosa che si può ottenere in una modalità morale e lecita, acquistando qualche cosa, chiedendo uno scambio. Ma il comandamento proibisce quell’avidità di avere e di avere a qualsiasi costo e di avere fuori misura. E lo proibisce - ripetiamo - nella sua radice, cioè nel desiderio, nel senso appunto di non acconsentire a un desiderio disordinato. Riguardo a questo, il Catechismo, commentando il Decimo comandamento, contrappone a questa cupidigia-avidità la virtù della povertà.
La virtù della povertà tiene a bada la concupiscenza degli occhi, questo volere, questo accumulare, questo pretendere, non essere mai sazi, dove il cuore si disperde nell’andare dietro alle cose, ovviamente sempre giustificandosi, perché “possono essere utili, non si sa mai”, eccetera. Il peccato, chiaramente, ha un rimorchio di scuse, sempre pronto, da esibire. Ora, la povertà, di nuovo, è una virtù; e come tutte le virtù - come visto con il pudore - si esercita concretamente.
La povertà consiste in questo esercizio di privarsi concretamente di cose e dall’impedirsi di averne altre. Ovviamente non stiamo parlando di cose essenziali per vivere, ma ormai oggi il 95% di quello che abbiamo o che vorremmo avere non fa parte del necessario: quindi, bisogna avere questo allenamento continuo di privarsi di qualche cosa o di aspettare magari ad averla; dunque avere una privazione assoluta o momentanea, a seconda delle situazioni. A questo, chiaramente, va aggiunta una frequentazione di Dio e dei Suoi misteri, perché se non siamo attratti dalle cose del Cielo, dalle realtà celesti, ovviamente sentiamo più forte il richiamo verso le cose terrene.
È interessante che il Catechismo, molto concretamente, ci dice che bisogna essere realisti e che ci sono delle categorie chiaramente più esposte alla trasgressione di comandamento. Al n. 2537, citando il Catechismo Romano, il Catechismo ci mette davanti coloro che «devono con più insistenza essere esortati ad osservare questo comandamento». «Sono, cioè, quei commercianti e quegli approvvigionatori di mercati che aspettano la scarsità delle merci e la carestia per trarne un profitto con accaparramenti e speculazioni». Ironicamente si potrebbe dire che questo oggi non capita mai… altro curioso riferimento è a «quei medici che aspettano con ansia le malattie [oggi bisognerebbe includere anche le multinazionali e chi in qualche modo entra in questa filiera, cioè che aspetta le malattie, per poi poter lucrare]; quegli avvocati e magistrati desiderosi di cause e di liti...» (CCC 2537).
Questi due comandamenti, dunque, sono importanti, e si distinguono dai loro corrispondenti, cioè il Sesto e il Settimo, perché ci insegnano a combattere il grande combattimento della vita cristiana fin dalla sua radice e la radice è nel desiderio distorto, nella concupiscenza. Quando questo desiderio si affaccia - e ovviamente, facendo parte del concupiscibile, si affaccia sempre con una certa forza, una certa violenza - deve trovare immediatamente da parte nostra una vigilanza attenta per tagliare alla radice qualsiasi tipo di adesione, che poi magari non si concretizza in un atto, ma è già peccato nel momento in cui aderisco, cioè acconsento a questi desideri illeciti, disordinati.
Ringraziando il Signore, abbiamo concluso la sezione dedicata ai Dieci comandamenti. Dalla prossima volta, dopo la Pasqua, proseguiamo con i singoli articoli del Credo.