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POLONIA

Il comunista che passò dai carri armati alle riforme

La morte del generale Jaruzelski, ultimo dittatore sovietico della Polonia, è un'occasione per ricordare anche la lealtà di un uomo che ha saputo riscattare la repressione, riconoscendo i propri errori.

Esteri 27_05_2014
Il generale Jaruzelski

13 dicembre 1981, Jaruzelski annuncia la legge marziale

La coincidenza con grandi fatti internazionali – elezioni europee, Papa in Terra Santa, Ucraina – ha fatto passare in secondo piano la morte, avvenuta domenica sera, del generale polacco Wojciech Jaruzelski. Eppure Jaruzelski, che aveva 90 anni, ultimo dittatore sovietico della Polonia ma anche presidente nel breve periodo di transizione tra il 1989 e il 1990, merita di essere ricordato perché la sua vicenda personale e politica si colloca a un crocevia della storia di cui è stato protagonista e che ha segnato grandi cambiamenti che vanno ancora compresi nel loro significato più profondo.

«È una figura tragica e complessa, che si è riscattata nel tempo», dice di lui Luigi Geninazzi, il giornalista che seguì per il settimanale “Il Sabato” tutte le vicende della Polonia negli anni ’80 e il crollo del comunismo nell’Est Europa, che ha ricostruito in un libro uscito recentemente (L’Atlantide Rossa: la fine del comunismo in Europa, ed. Lindau). 

Di Jaruzelski rimane impressa ancora oggi quell’immagine del 13 dicembre 1981 quando apparve in televisione, divisa da militare, atteggiamento freddo, per annunciare la legge marziale che doveva porre fine agli scioperi nei cantieri navali di Danzica e a Solidarnosc, il sindacato che stava generando una grande speranza di libertà e condizioni migliori di vita.

Indubbiamente, Jaruzelski ha fatto l’ingresso sul palcoscenico della storia nel peggiore dei modi, come «il dittatore repressivo; era il comunista in uniforme, cosa che non si era mai vista prima nei paesi sovietici dell’Est europeo». Ma contrariamente alla stragrande maggioranza dei politici che iniziano la loro carriera suscitando tante speranze per poi finire malamente, con giudizi severi della storia, Jaruzelski in effetti si è riscattato: «La storia dovrà riconoscergli la lealtà e il coraggio, perché dopo otto anni è stato capace di tornare sui suoi passi, riconoscere l’insuccesso della sua normalizzazione, per cui è tornato a dialogare con chi nel 1981 aveva messo in prigione: Lech Walesa, anzitutto, ma più in generale Solidarnosc, la Chiesa cattolica».

E all’inizio degli anni ’90, quando era ormai un ex, soppiantato dall’arrivo della democrazia che già nel 1990 aveva portato Lech Walesa, l’elettricista leader di Solidarnosc, alla presidenza della repubblica polacca, già riconosceva i suoi errori, ultimo dei quali non aver capito cosa stava accadendo in Polonia: «Ripensando al 1989, quando dopo lunghe trattative concesse elezioni semi-libere (un terzo del Parlamento eletto dal popolo) – dice Geninazzi – nella sua autobiografia Jaruzelski riconosce che la leadership comunista era allora proprio fuori dalla realtà, perché pensava ancora di potercela fare a mantenere il socialismo aprendolo un po’, concedendo semplicemente qualcosa».

Fu travolto, ma resta quell’atto coraggioso di aver aperto a Solidarnosc, un fatto che acquista ancora più valore se lo si confronta con un avvenimento che si svolgeva contemporaneamente dall’altra parte del mondo ma dalla stessa parte dell’ideologia. Le elezioni concesse da Jaruzelski si svolsero infatti il 4 giugno 1989, esattamente lo stesso giorno in cui i carri armati del regime comunista cinese entravano in Piazza Tiananmen e travolgevano studenti e operai che da mesi erano lì a reclamare riforme democratiche. A Pechino fu una strage, a Varsavia si faceva largo la libertà.

«Il 4 giugno 1989 i destini del mondo comunista si sono divisi. Era evidente che il comunismo come lo si era conosciuto fino ad allora non poteva essere più: o seguiva la strada cinese, la repressione, o provava ad aprirsi. In quei giorni nessuno poteva immaginare che il comunismo sovietico cadesse così presto. Peraltro, oggi quando parliamo della Cina, del suo “modello” che attrae così tanti anche in Occidente, si dimentica quel macigno che ne è all’origine e per cui nessuno ha fatto autocritica». Repressione e arroganza da una parte, apertura e autocritica dall’altra: «Il presidente cinese è passato dalle riforme ai carri armati, Jaruzelski dai carri armati alle riforme».

Certo, non bisogna dimenticare che un fattore decisivo per la Polonia fu la resistenza del popolo, la cui identità cattolica rappresentò un muro contro cui si infransero anche i carri armati comunisti. Walesa poi ricorda sempre quanto sia stata importante l’elezione a papa di Giovanni Paolo II. È una forza che sicuramente la Cina non ha avuto, ma si deve anche dire che nessuno degli analisti italiani pensava allora che - Papa o non Papa - la Polonia potesse avere un destino diverso dall’Ungheria del 1956 e della Cecoslovacchia del 1968. 

E invece accadde, anche grazie a Jaruzelski, e lo dimostra il fatto che l’ex dittatore polacco ha poi avuto anche modo di riconciliarsi con i nemici di un tempo. Lech Walesa, anzitutto, che ha riconosciuto pubblicamente a Jaruzelski il merito di aver “salvato” la Polonia in un momento in cui i missili russi erano già pronti a sparare sulla nazione ribelle. «Walesa ha incontrato Jaruzelski anche negli ultimi anni – ricorda Geninazzi -, quando l’ex generale era già gravemente malato. Walesa è andato a trovarlo in ospedale e mi ha raccontato di un incontro perfino commovente». 

Ma anche con Giovanni Paolo II è successo qualcosa, al punto che Jaruzelski ha anche testimoniato per la sua causa di beatificazione. Non si è convertito, ma «ha detto che il Papa gli ha toccato il cuore e che lui ha avuto la netta percezione che fosse un santo». E sì che i primi faccia a faccia non furono semplici. Jaruzelski incontrò Giovanni Paolo II otto volte, l’ultima nel 2001: «L’ultima volta che intervistai Jaruzelski – dice Geninazzi – mi confessò che Wojtyla gli faceva paura; ebbero negli anni ’80 colloqui molto burrascosi, duri, era per lui troppo intransigente. Ma era colpito dalla grande forza interiore che il Papa sprigionava, aveva capito che aveva dinanzi a sé una personalità straordinaria, diceva che era davvero un santo. E quel Papa, alla fine, gli ha toccato il cuore».