Il compromesso UE, un positivismo senza valori
Sulle nomine dei vicepresidenti e dei commissari dell’Unione Europea si è raggiunto il “compromesso”, che per alcuni – come Kelsen – sarebbe il valore aggiunto della democrazia. Per altri è il segno della sua sconfitta endemica.
Nei giorni scorsi abbiamo assistito alla solita recita per le nomine dei vicepresidenti e dei commissari dell’Unione Europea. Su due di essi, la spagnola Teresa Ribera e l’italiano Raffaele Fitto, si sono incrociati i veti di popolari e socialisti. Ad un certo punto sembrava addirittura che la maggioranza von der Leyen rischiasse di rompersi. Con fatica alla fine la situazione si è ricomposta e si è raggiunto il “compromesso”.
Ecco la parola magica: “compromesso”. Per qualcuno, che la democrazia arrivi al compromesso è un segno della sua validità, non potrebbe accadere diversamente perché il suo merito e l’indice della sua superiorità rispetto ad altre forme politiche è proprio questo. La democrazia non solo può ma deve giungere al compromesso. Per altri, invece, il compromesso è la sconfitta endemica della democrazia che ne dimostra la debolezza e le impedisce strutturalmente di pensare e provvedere al bene comune, rendendola dipendente dal compromesso delle opinioni e degli interessi.
Il maggior teorico della prima interpretazione è Hans Kelsen (1881-1973) che ne tratta ampiamente nel suo libro La democrazia, edito in Italia nel 1995 da Il Mulino e che raccoglie suoi scritti su democrazia e parlamentarismo degli anni Venti e degli anni Cinquanta del secolo scorso. Secondo lui, «l’ideale di un interesse generale superiore e trascendente gli interessi dei gruppi e perciò partiti, l’ideale di una solidarietà di interessi di tutti i membri della collettività senza distinzione di confessione, di nazionalità, di ceto etc., è un’illusione metafisica». Poiché l’opposizione degli interessi è inevitabile – egli dice – la volontà generale, se non vuole essere autocratica e rispondere agli interessi di un solo gruppo, deve risultare da un compromesso. Per Kelsen è naturale e inevitabile che l’evoluzione politica conduca alla formazione di partiti, tramite i quali la volontà generale viene democratizzata. Il parlamentarismo è lo strumento per favorire in modo democratico il raggiungimento di questi compromessi. Data l’impraticabilità della democrazia diretta (anche Rousseau, scrive Kelsen, la limitava solo al contratto sociale fondante la comunità politica) non rimane che quella rappresentativa, ossia il parlamentarismo. Si tratta certamente di una “finzione” perché si scambia la maggioranza per la totalità, ma secondo Kelsen non è un tradimento del principio della volontà generale, anzi è una sua elevazione.
Come esempio della seconda interpretazione, prendo il filosofo del diritto e della politica Danilo Castellano che ne parla, tra gli altri luoghi, nel suo libro Introduzione alla filosofia della politica. Breve manuale (ESI, Napoli 2020). Secondo lui, è errato intendere il parlamento come il luogo della composizione degli interessi. Questo, infatti, prevede un’accettazione del conflitto come presupposto della vita associativa e come metodo di soluzione dei problemi politici, il che non tiene conto della naturale socievolezza dell’uomo e pensa che tra individuo umano e comunità politica ci sia contrapposizione. Se l’individuo o il gruppo pretendono la possibilità di fare ciò che vogliono, ossia di seguire solamente i propri interessi, la comunità politica viene vista solo come puro potere. Il raggiungimento di compromessi parlamentari non risolve la questione se non a livello procedurale. Il parlamento non viene più inteso come «il luogo per individuare le soluzioni ragionevoli e giuste, ma il luogo in cui avviene il bilanciamento delle forze».
Tornando al compromesso in sede UE da cui siamo partiti, mi sembra evidente che esso incarna la posizione di Kelsen, ossia di un positivismo privo di fini e di valori.
Stefano Fontana