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IL CASO

Il caso Ilva e la santa alleanza contro l’industria

Il silenzio sulle sue scelte, o non scelte, in tema di politica economica è uno dei tratti tipici dell’attuale governo. Frattanto qualcosa  accade  e qualcosa non accade. Tra le cose  che stanno accadendo nel silenzio e che invece meritano grande attenzione c’è il caso del centro siderurgico Ilva di Taranto, oltre 9 milioni di tonnellate di acciaio prodotte nel 2008 (scese a 4,88 nel 2015), la maggiore acciaieria del Mediterraneo. 

Economia 19_07_2016
L'Ilva di Taranto

Il silenzio sulle sue scelte, o non scelte, in tema di politica economica è uno dei tratti tipici dell’attuale governo. Frattanto qualcosa  accade  e qualcosa non accade. Tra le cose  che stanno accadendo nel silenzio e che invece meritano grande attenzione c’è il caso del centro siderurgico Ilva di Taranto, oltre 9 milioni di tonnellate di acciaio prodotte nel 2008 (scese a 4,88 nel 2015), la maggiore acciaieria nel solo d’Italia, ma del Mediterraneo. 

C’è qualcosa di masochistico nell’accanimento con cui segmenti della magistratura, della politica, dei sindacati e della cultura di sinistra tengono sotto assedio questa importante realtà industriale del nostro Paese,  come se fosse una disgrazia e non invece, come è, una grande risorsa della nostra economia.  L’Ilva ha anche dei grossi problemi di ordine ambientale, la cui responsabilità risale comunque non soltanto ai suoi ultimi proprietari, ma anche a quelli che li hanno preceduti; e dunque pure allo Stato, che ne detenne la proprietà più a lungo di chiunque altro. 

Sono problemi seri, e vanno affrontati e risolti. Ciononostante, l’Ilva è appunto in primo luogo una grande risorsa che il nostro Paese non può permettersi di sprecare. Merita perciò di venire seguita attentamente la gara per la cessione (anche in affitto) dell’azienda a nuovi proprietari, che è iniziata lo scorso 1 luglio con il deposito di due offerte, ciascuna delle quali caratterizzata dalla partecipazione di uno dei due maggiori gruppi siderurgici italiani: da una parte, infatti, è in campo il gruppo Marcegaglia con alle spalle il gigante anglo-indiano ArcelorMittal, mentre dell’altra c’è il gruppo Arvedi.

In questo caso è stata costituita un’apposita società a capitale misto il cui socio principale è un ente di Stato, ossia la Cassa Depositi e Prestiti, socio al 44,5 per cento. Seguono la DelFin (Luxottica) con il 33,3 e infine Arvedi con il 22,2 per cento. AcciaItalia è però in grado di sottoscrivere non più  del 70 per cento del capitale, mentre  per il restante 30 per cento conta sull’ingresso nell’operazione del gruppo turco Erdemir, che tuttavia scioglierebbe la sua riserva soltanto in novembre. AcciaItalia si finanzierebbe inoltre anche con l’emissione di titoli di prestito (bond) che le banche creditrici dell’Ilva verrebbero chiamate a sottoscrivere. 

La procedura di cessione dell’Ilva prevede che il piano di risanamento ambientale proposto rispettivamente dai due concorrenti venga esaminato in via preliminare, prima di ogni altro elemento, prima anche del prezzo che ciascuno dei due offre per rilevare l’azienda. Alla notizia che qualcosa finalmente si stava muovendo per il rilancio di un’azienda, che era giunta ad avere 11 mila dipendenti, ci si sarebbero attesi segnali quantomeno di cauto consenso, se non di plauso. Invece, il presidente della Puglia, Michele Emiliano, ha salutato la notizia presentando un ricorso in Corte costituzionale contro il  decreto del 31 maggio scorso con cui il governo ha stabilito che la società  vincitrice della gara per l’acquisizione dell’Ilva avrà tempo fino al 31 dicembre 2019 per avviare il relativo piano per il risanamento ambientale. Un termine, in effetti, nient’affatto irragionevole se si vuole che detto piano non sia affrettato e quindi vulnerabile ai più diversi ricorsi. 

Se, infatti, si fossero dovuti rispettare i termini prima vigenti, il termine per il risanamento del Centro siderurgico di Taranto sarebbe scaduto il prossimo 4 agosto 2016. Per parte sua, l’altro ieri la magistratura inquirente tarantina ha poi dato subito un colpo di avvertimento procedendo alla denuncia di quattro direttori del centro siderurgico e  al sequestro dentro la fabbrica di materiali in deposito ritenuti dei rifiuti pericolosi accatastati in modo non regolare, nonché dei duemila metri quadri di terreno su cui sono risultano deposti. I managers che i futuri proprietari volessero inviare a Taranto a riattivare l’Ilva sono avvertiti. 

Per parte loro, a conferma della “filosofia” neo-corporativa che ormai li caratterizza, anche i sindacati tacciono. Sin dall’inizio della crisi dell’Ilva è stato chiaro che ai sindacati non interessa molto il futuro dell’azienda come motore di sviluppo industriale presente e futuro. In fin dei conti gradirebbero di più la chiusura degli impianti e l’impiego degli attuali dipendenti dell’Ilva in operazioni sine die di risanamento del sito del centro siderurgico finanziate dallo Stato. 

La vicenda dell’Ilva di Taranto conferma, insomma, ancora una volta che uno degli ostacoli maggiori alla rinascita economica del nostro Paese è quel moderno “oppio dei popoli” che – diremo citando Lenin suo malgrado – è l’estremismo ambientalista e la mentalità anti-industriale che ne deriva. L’estremismo di origine neo-pagana di cui tra l’altro si parla ne Il clima che non ti aspetti, uno dei titolo della nostra collana “I libri della Bussola” (clicca qui). In realtà, la produzione industriale e l’attività estrattiva non sono affatto incompatibili con l’ambiente.

Lo sviluppo della tecnologia e l’uso responsabile delle risorse  consentono di superare questa  presunta contraddizione irrisolvibile. In vista di un moderno e adeguato sviluppo del Mezzogiorno continentale si registra tra l’altro con l’area industriale di Taranto una prossimità ricca di gigantesche prospettive e invece finora buttata via: quella con i vicini giacimenti di idrocarburi della Basilicata. Non sarebbe ora di tenerne conto?