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IL LIBRO

Il cardinal Sarah: il prete non è un assistente sociale

Chi considera il clero come male assoluto per le colpe di alcuni e chi invece si ferma alla simpatia umana. Ma l’essenza del sacerdozio, spiega il cardinale Robert Sarah, non è il protagonismo né il potere: egli è il tramite tra Dio e gli uomini e la sua sfera d’azione è tutta spirituale.

Ecclesia 16_07_2022

L’ultima fatica del cardinale Robert Sarah, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino, sembra un “innocuo” libro di meditazione per sacerdoti e invece contiene riflessioni decisamente audaci e di grande interesse anche per laici, oserei dire, persino per i non credenti. Capita spesso di ascoltare espressioni di disprezzo verso il clero in quanto tale – sull’onda delle colpe gravissime di alcuni suoi membri, o anche solo perché il parroco è antipatico – finendo per pensare che sia proprio il sacerdozio in sé la causa di tutti i mali. C’è invece chi apprezza il “don” ma per ragioni quantomeno riduttive: perché è simpatico, veste casual e celebra la Messa in modo creativo, senza contare la comodità di mandare i figli all’oratorio. I sacerdoti stessi a loro volta si arrovellano a escogitare questo e quel modo per attrarre i “giovani” e i “lontani”, con le migliori intenzioni e con pessimi risultati.

Nel libro Per l’eternità. Meditazioni sulla figura del sacerdote (Cantagalli, Siena 2022), il cardinal Sarah va a fondo su diagnosi e terapia. Attraverso un florilegio di autori, da Benedetto XVI a Georges Bernanos, il porporato guineano coglie il nocciolo della questione nell’identità (e nella crisi d’identità) del sacerdote. Una riflessione tanto più urgente oggi che l’«identità sacerdotale, macchiata da una minoranza, viene fortemente contestata», oppure travisata da una «visione sociologica del sacerdozio». Prima di entrare nel merito, il cardinale ricorda il motto dei Certosini che si può leggere in filigrana nell’intero libro: «Stat crux dum volvitur orbis», «soltanto la Croce è stabile, mentre il mondo ruota attorno a lei».

Santa Caterina da Siena «non esitava a invocare una riforma dei pastori. Ma quale riforma? Una trasformazione del sacerdozio, una ristrutturazione del sacramento dell’Ordine? Al contrario, la conversione dei sacerdoti a una vita coerente con il proprio stato sacramentale». In altre parole, non sforzandosi di risultare più accattivanti, bensì sparendo perché la gente possa vedere Cristo in loro. In quest’ottica si supera anche l’equivoco del sacerdozio come ruolo di potere, cui una certa creatività postconciliare ha prestato il fianco: se a risultare preponderante è la sua persona, allora anche gli altri vorrebbero una quota di “protagonismo”. Ecco allora le rivendicazioni del sacerdozio alle donne e agli uomini sposati, ma anche, più banalmente, la corsa da parte dei laici ad accaparrarsi questo o quel ruolo liturgico.

Alla “clericalizzazione” dei laici corrisponde la parallela “laicizzazione” di alcuni chierici, che una volta persa la propria identità si improvvisano opinionisti o assistenti sociali, quasi avvertendo il culto come un disturbo arrecato a sé e agli altri. Anche aspetti apparentemente desueti (considerati tali dallo stesso clero, a volte) come quei «segni di rispetto e riverenza» nella liturgia, non sono indirizzati alle loro persone, ai pastori, ma, attraverso di essi, al Buon Pastore. I paramenti liturgici, troppo spesso indossati con fastidio e trasandatezza, quando non ridotti al minimo sindacale, sono in realtà segno della loro configurazione a Cristo: non servono a esaltare il prete, ma a farlo letteralmente sparire in persona Christi.

Con lo stile pacato e la profondità “certosina” che lo contraddistingue, il cardinal Sarah non fa sconti: solo lasciandosi assimilare da Cristo si può sfuggire alla tendenza ad autoglorificare se stessi o la comunità. Tentazione che si manifesta persino sotto le apparenze di un pauperismo modaiolo. Quanto alla povertà autentica, esclama: «Se ne parla tanto, ma la si esercita poco!». Altri ancora, mossi dalla «preoccupazione di compiacere il mondo o di risultare attuali» tendono «ad annacquare il Vangelo, a mistificarlo o a edulcorarlo per adattarlo alla mentalità e alle ideologie occidentali». Entra qui in gioco però il problema della verità, cui l’uomo contemporaneo è quanto mai avverso, preferendo parlare «di cambi di paradigmi». «Se ci sono cose che cambiano», osserva il cardinal Sarah, «ci sono anche cose che restano immutate» perché «l’uomo resta lo stesso», con le medesime inclinazioni al bene e al male. «L’unica differenza che sussiste tra me e Adamo è che io, oggi, ho un cellulare, un’automobile».

La sfera d’azione del sacerdote è quella interiore, mentre diventa inutile quando si dedica ad altre cose che un laico potrebbe svolgere anche meglio: «Non è un assistente sociale o il direttore di una ONG che gestisce gli aiuti umanitari. [...] La funzione essenziale che il sacerdote deve esercitare riguarda le anime, la loro relazione con Dio». E questa funzione non si esercita mediante strategie, sia pure “pastorali”: «La grazia non sarà mai frutto di una tecnica, perché essa sgorga sempre dal cuore aperto di Gesù sulla croce».

Quelli espressi dal cardinal Sarah potrebbero sembrare concetti lontani e astratti, ma ne facciamo esperienza proprio nei momenti più difficili, nelle fasi oscure della vita, quando le pacche sulla spalla non bastano più: allora abbiamo bisogno di qualcuno che ci indichi Qualcuno più in alto di lui.