Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
L’origine

Il calcio in Italia, non solo panem et circenses

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L’Italia moderna, fino al XIX secolo, aveva uno sport nazionale, ma non era il calcio. Alcune delle principali squadre italiane sono state fondate da britannici. E il calcio ha contribuito a “creare” gli italiani di oggi.

Sport 10_08_2024
Herbert Kilpin

Il calcio, in Italia, fa parte della cultura e dell’identità nazionale; qualcuno lo descrive come una “seconda religione” di Stato. C’è (c’era) il rito domenicale, la cattedrale (lo stadio), la “fede” calcistica, i “santi” et cetera. Ci sono momenti e personaggi che hanno lasciato un segno nell’anima degli italiani, basti citare il mondiale di Spagna ’82. Diciamolo: non si può immaginare un’Italia senza calcio. Eppure… non è sempre stato così.

L’Italia moderna aveva uno sport nazionale, ma non era il calcio. Era il «giuoco del pallone (col bracciale)», diffusissimo in tutta la Penisola, soprattutto al centro-nord. Era così importante che Giacomo Leopardi ha dedicato una delle sue liriche (A un vincitore nel pallone, 1821) a Carlo Didimi, campione treiese di questo sport.

Di gloria il viso e la gioconda voce,

garzon bennato, apprendi,

e quanto al femminile ozio sovrasti

la sudata virtude. Attendi, attendi,

magnanimo campion (s’alla veloce

piena degli anni il tuo valor contrasti

la spoglia di tuo nome), attendi e il core

movi ad alto desio. Te l’echeggiante

arena e il circo, e te fremendo appella

ai fatti illustri il popolar favore;

te rigoglioso dell’età novella,

oggi la patria cara

gli antichi esempi a rinnovar prepara.

[…]

Il giuoco del pallone col bracciale era talmente importante che per esso, abitualmente giocato lungo le mura delle città fortificate, vennero costruiti appositi stadi in diverse città italiane: lo sferisterio di Macerata è solo uno di questi edifici. Eppure questo sport, così identitario, così diffuso e popolare, è scomparso nel nulla per essere sostituito dal calcio. Come è stato possibile? Cerchiamo di capirlo insieme.

La storia del calcio in Italia inizia nel 1896 con lo sbarco, a Genova, del medico James Richardson Spensley, ufficialmente incaricato di curare i marinai britannici. Spensley era un personaggio sui generis: teosofo (il testo di una sua conferenza, tenuta a Genova nel 1907, fu pubblicato con il titolo di Teosofia moderna), esperto di lingue e religioni orientali, filantropo (cioè massone). Era, Spensley, un agente d’influenza del Director of Military Intelligence? Il curriculum lo aveva…

Appena arrivato, aprì agli italiani il Genoa Cricket & Athletics Club (fino ad allora riservato ai britannici), l’anno seguente inaugurò la sezione calcistica e nel 1898 organizzò la prima partita con una squadra di Torino, fondata nel 1886 da Edoardo Johann Peter Bosio, commerciante inglese di origini italiane. Bosio aveva fondato diverse squadre nel capoluogo piemontese ma, nonostante il coinvolgimento del Duca degli Abruzzi e del marchese Alfonso Ferrero de Gubernatis Ventimiglia, non era riuscito a far decollare questa attività britannica. Ci riuscì Spensley che, nel 1898, organizzò il primo campionato italiano e creò la Federazione Italiana Football (FIF). Nel 1907, Luigi Bosisio si adoperò perché il football assumesse un nome meno «straniero» e più «nostrano», convinto che questo cambiamento avrebbe facilitato la diffusione dello sport albionico nella nostra Penisola. In un articolo, pubblicato sulla Gazzetta dello sport del 17 ottobre 1907 e intitolato Foot-Ball o calcio?, leggiamo:

«Una proposta giudiziosissima ci vien posta dal nostro amico Rag. Bosisio il quale… ci consiglia ad iniziare l’invocata italianità del football sostituendo a questo ostico titolo straniero una parola italiana… quella onde veniva denominato il giuoco nelle sue origini, allorquando la gagliarda gioventù vi si dedicava al tempo dei comuni italici tra una battaglia e l’altra sulle spianate dei dolci colli toscani. Il calcio! Questa proposta probabilmente avrà sapore di “forte agrume” per molti. Ed è per questo motivo che noi… intitolando “Calcio” la presente rubrica, intendiamo abituare le orecchie ostili e degli ignari alla nostra idea… in modo che il trapasso di abitudini sia automatico e quasi non avvertito. Gli italiani, purtroppo, non si creano d’un tratto».

Sottolineiamo l’ultima frase: «Gli italiani, purtroppo, non si creano d’un tratto». Essa ricorda, molto da vicino, quella piuttosto irritante che viene generalmente attribuita a Massimo D’Azeglio che recita: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani». La diffusione del calcio in Italia ha qualcosa a che fare con il «fare gli italiani», ossia costruire ex novo una identità politica, culturale e religiosa del popolo al quale era stato imposto uno Stato? Imposto, va da sé, dai britannici che avevano attentamente e minacciosamente vigilato su tutto il cosiddetto Risorgimento. È un caso, dunque, se alcune delle principali squadre italiane sono state fondate da britannici? Anche il Milan, in origine Milan Football & Cricket Club, fu fondato da un gruppo di inglesi, come le altre squadre delle quali abbiamo detto poco sopra. Il calcio aveva anche una funzione (oltre che anti-italiana) anche anti-cattolica? Tra gli inglesi di cui sopra, va ricordato Herbert Kilpin, che identificò il Milan con il diavolo; e Spensley era figlio di un pastore metodista, tra le denominazioni britanniche quella più ferocemente anti-papista…

L’idea che una nazione voglia lasciare una impronta culturale nel carattere di una colonia (tale era ed è l’Italia) può suonare strano, ma solo ad uno sguardo superficiale. Nel Quaderno della Bussola intitolato Il cinema ci cambia la testa abbiamo visto come gli Stati Uniti abbiano operato un vero e proprio «lavaggio del carattere» nei confronti di tedeschi e italiani dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il celebre Piano Marshall aveva, tra gli scopi, quello di importare in Europa l’american way of life; ne abbiamo una testimonianza ironica nel film Un americano a Roma (1954). Quindi perché non il calcio, lo sport delle classi povere britanniche? Perché no. Del resto, lo vediamo quasi quotidianamente, il calcio (a livelli alti, non certo sui campetti degli oratori) è uno strumento politico. Non è solo una questione di panem et circenses.