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JIHAD

Il braccio di ferro fra Turchia e Cina per l'Asia Centrale

Un misterioso attentato a Pechino, il 26 luglio, commesso da un cittadino della Mongolia Interna riaccende l'attenzione sulla presenza di gruppi jihadisti anche in Cina. La Turchia ufficialmente condanna il Movimento Islamico del Turkestan Orientale, ma di fatto ha foraggiato i jihadisti uiguri in Siria. E ha mire nell'Asia turchica, fino in Cina.

Esteri 28_07_2018
Pechino, dopo il fallito attentato all'ambasciata Usa

L'attentato sventato a Pechino il 26 luglio riaccende l'attenzione sull'alto tasso di estremismo presente nella vasta area centroasiatica. Ancora nulla trapela dalle autorità cinesi circa il movente che avrebbe spinto il 26enne Jiang a recarsi presso l'ambasciata americana con l’intenzione di far esplodere un ordigno. Del giovane proveniente dalla Mongolia interiore, regione autonoma settentrionale, non si hanno ulteriori informazioni, e la polizia ha già derubricato il caso come isolato. È possibile si tratti di un "pazzo", l'ennesimo che tenta di effettuare attacchi terroristici, dopo quelli in Germania e in Canada. O di gesto dimostrativo legato a cause diverse da quella jihadista: la donna che stava per darsi fuoco con della benzina, catturata sempre presso l'ambasciata americana, non indossava il velo. 

Tuttavia, un'eventuale matrice jihadista dell'attentato non dovrebbe produrre stupore alcuno, poiché il filo rosso del jihad lega a sé anche la Cina. Come già fatto rilevare in passato, il tasso di estremismo nella vasta area centroasiatica è infatti molto alto. Interconnessa alle zone più calde del quadrante mediorientale e del nord del Caucaso, le steppe di questa regione generano da decenni mujaheddin terroristi sempre pronti a ingrossare i ranghi di Al Qaeda e ISIS nei vari teatri di guerra (Afghanistan, Siria, Iraq, sud-est asiatico), senza risparmiare la Cina. 

Nella regione nord-occidentale dello Xinjiang, l’intransigenza del governo centrale ha contribuito a far sì che l'islamismo si sostituisse al nazionalismo nel veicolare le istanze indipendentistiche della maggioranza uigura. Nel 2014, una serie di attacchi terroristici ha provocato, oltre a numerose vittime e feriti, la dura reazione di Pechino, che in chiave anti-estremismo ha introdotto provvedimenti particolarmente restrittivi, come il divieto d'indossare il velo nei luoghi pubblici. Da quel momento in poi la Cina non ha più subito attentati, ma l'allarme resta elevato per il ritorno dei foreign fighters uiguri, in particolare dalla Siria. Il male dell'ideologia islamista che ha attecchito nello Xinjiang risulta dunque difficile da estirpare e potrebbe aver già contagiato altre aree dove sono presenti comunità musulmane, come la Mongolia interna, innestandosi su rivendicazioni separatiste o autonomiste. 

In attesa di ricevere maggiori delucidazioni su quanto accaduto a Pechino il 26 luglio, per quanto edulcorata sarà la versione ufficiale, ipotizzare una matrice jihadista dell'attentato ci consente di delineare i tratti e il percorso del filo del jihad che avvolge anche la Cina. Da questo punto di vista, l'ambasciata americana di Pechino è un obiettivo altamente simbolico. Malgrado i contrasti tra i due paesi, la diarchia USA-Cina può essere infatti percepita come il principale blocco di potere che si frappone alla realizzazione del Califfato mondiale. Inoltre, la Cina si trova immersa nell'area turchica e turcofona che dalla Mongolia che fu di Gengis Khan, attraversando lo Xinjiang e le ex repubbliche sovietiche centro-asiatiche, arriva fino alla Turchia del neo-Sultano Erdogan. Un filo che lega Ulanbator a Istanbul, sul quale il Presidente turco ha da tempo messo le mani con l'obiettivo di sfruttare le comuni origini etniche e linguistiche con le popolazioni locali per promuovere l'avanzata dell'agenda islamista. Può apparire mera fantasia, ma tale obiettivo è ben presente nella visione dei tanti Fratelli Musulmani di tutto il mondo che guardano con speranza al ritorno di Istanbul nel ruolo di faro dell'Islam a livello globale. Non a caso Istanbul è altre località della Turchia sono già ricettacolo di centinaia di migliaia d'individui provenienti dalle suddette steppe: studenti, lavoratori e anche terroristi, come l'uzbeko autore della strage di Capodanno 2017 a Istanbul. 

La Cina è consapevole delle ambizioni del Sultano e non guarda ad esse con favore. Il riconoscimento come organizzazione terroristica da parte di Ankara del Movimento islamico del Turkestan orientale, attivo nello Xinjiang, per i suoi legami con l’ISIS, è un provvedimento di scarsa credibilità di fronte al supporto fornito dalla Turchia a migliaia di jihadisti uiguri in Siria. Al netto delle relazioni economiche in espansione, Pechino resta diffidente nei confronti di Erdogan e con la visita ad Abu Dhabi del Presidente Xi, avvenuta qualche giorno prima dello sventato attacco all’ambasciata americana, ha fatto chiaramente capire da che parte sta il gigante asiatico nella lotta al terrorismo.