Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
ABORTO

Il bimbo rifiutato è Cristo crocifisso

Un destino di rovina attende quella società che non riconosce la vita. È qui che si manifesta il rifiuto di Dio che si è fatto uomo.

Cultura 26_03_2011
Vita

Nella cultura contemporanea spesso il solidale connubio tra diritto e piacere consacra la liceità di tutto quanto il potere della tecno - scienza può soddisfare e ottenere. Vittime privilegiate di questo sacrificio sono gli innocenti, come già al tempo di Gesù: piccoli e anziani sono sacrificati sull’altare con aborto ed eutanasia. I sacrifici umani, tipici solo dell’età più primitive, sono ormai ritornati. Tutto questo è chiamato progresso e affrancamento dalla barbarie della religiosità. L’omicidio non è più chiamato per nome, ma è mistificato con l’avvallo di medici e di giuristi.

Nel XX secolo le persone uccise in «atti di violenza di massa» sarebbero oltre cento milioni, forse centocinquanta o duecento milioni. La Seconda guerra mondiale avrebbe da sola mietuto cinquanta milioni di vittime. Ebbene, secondo dati dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2010, ogni anno verrebbero praticati almeno 40 milioni di aborti, numero che fa accostare il numero annuale di morti innocenti all’ecatombe della Seconda guerra mondiale. Stime per difetto parlano di un miliardo di aborti negli ultimi decenni. L’aborto è stato introdotto dapprima nei regimi totalitari, la Germania nazista e l’Unione sovietica (dal 1965 al 1982 sarebbero lì più di 150 milioni le vittime), solo più tardi nei paesi democratici.

L’aborto così tanto osannato come conquista  della modernità sarebbe quindi il frutto avvelenato delle ideologie totalitarie. Colpisce ancor più il fatto che non ci siano atrocità compiute nel passato che possano essere comparate ad alcune forme di aborto utilizzate anche nei paesi occidentali. Solo per fare un esempio, addurrò il caso dell’aborto tardivo (proibito negli Stati Uniti solo dal novembre 2003) in cui «il medico mette il feto in posizione podalica, afferra i piedi con una pinza, porta le gambe fuori dall’utero e provoca il parto, estraendo la totalità del corpo del feto, tranne la testa. Si esegue quindi un’incisione alla base del cranio del feto, attraverso cui si fa passare la punta di un paio di forbici. Nel foro praticato si fa passare un catetere, attraverso il quale viene aspirato il cervello e il contenuto della scatola cranica del feto».
   
Se qualcuno avesse ucciso un bimbo già completamente fuori dall’utero materno in questo modo, i giornali e le televisioni avrebbero gridato all’omicida, al mostro capace di crimini efferati e barbari. Ma in questo modo, obiettano i giuristi, il capo del bimbo non è ancora uscito, si tratta di un aborto, non di un omicidio.
Ogni persona è nata da un atto d’amore, smemorato e dimentico quanto si vuole, tra un uomo e una donna.  Eppure anche la più piccola consapevolezza del fatto che siamo stati voluti e potremmo non esserci fa scaturire in noi una forma nuova di gratitudine e di consapevolezza che la vita, ogni forma di vita, è dono, dipendenza dal Mistero dell’Essere.

Dal fatto che siamo stati voluti deriva come conseguenza che la vita è risposta a chi ci ha voluto, la vita è compito e rapporto con chi ci ha chiamati, cioè dipendenza. Il bimbo vive di questa dipendenza, cresce e impara da questo dato di realtà, ogni sua possibilità di letizia è nell’accettazione dell’abbraccio amoroso dei genitori. Quando fa i capricci, non accetta la dipendenza, piange e si lamenta. I capricci sono pur sempre fatti di fronte ad una presenza genitoriale.
Oggi abbiamo perso questo senso di originaria dipendenza dal Mistero dell’Essere, ci siamo affrancati dal presupposto più concreto e reale che precede la nostra nascita (siamo stati fatti perché qualcun altro ci ha voluti, non siamo stati noi a volerci), abbiamo affermato il nostro delirio di onnipotenza e la dittatura dell’astrazione.

Per questo Madre Teresa di Calcutta indicava nell’aborto il più grave pericolo per la pace del mondo. Stupisce un’affermazione siffatta. Perché l’aborto veniva considerato dalla piccola suora dei poveri come un attentato al mondo intero, come il più grave rischio per la sopravvivenza dell’intero pianeta? Perché, risponde Madre Teresa, «è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa. […] Perché se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c’è più niente che impedisca a me di uccidere te e a te di uccidere me. Noi combattiamo l’aborto con l’adozione. Se una madre non vuole il suo bambino, lo dia a me, perché io lo amo».

Ci aiuta a comprendere meglio il senso dell’affermazione di Madre Teresa il dramma teatrale di Giovanni Testori (1923-1993) Factum est. Nell’opera parla solo il feto, colui che nella realtà non ha diritto di parola, di espressione, di comunicazione della propria volontà. È lui che viene messo in croce, è lui il nuovo Cristo crocefisso, rifiutato, reso totalmente silente ancor prima che esca dal ventre della madre. In una dinamica antitetica a quella annunciata nel vangelo di Giovanni dove «verbum caro factum est»  («il verbo si fece carne»), nell’opera la carne del feto (cui viene impedito di farsi carne al di fuori del ventre materno) si fa di volta in volta parola, profezia, maledizione. Il padre, però, non riconosce un senso, una causa e un fine a quel grumo di cellule: «caso, bacio/ questo è stato». Il feto allora reagisce rivolgendosi alla madre:«Madre,/ mamma,/ a te m’aggrappo![…]/ Chi ti parla/ era pur come son io!»

Nelle sue parole c’è un richiamo alla responsabilità del padre, quell’uomo che, anche se lo rifiuta, già è padre, perché il figlio è ormai concepito. Il feto demistifica tutte le moderne giustificazioni dell’aborto, presentato come manifesto del diritto e della libertà della donna, quando esclama: «È per vivere/ - ti dici –/ Per avere libertà»./ Libertà/ di spegner vita?/ Libertà/ di violar Dio?/ Libertà per te/ è finita./ Che comincia/ è l’urlo eterno,/ primavera uccisa,/ inverno,/ sempre gelo,/ sempre brina./ Mai sarete/ come prima».

Un destino di rovina attende
quell’uomo e quella società che non riconoscono la vita, che non l’abbraccia, dimentica del nulla che anche noi siamo stati e di quel Tutto che ci ha voluti e ci ha chiamato alla vita. Nell’omicidio di un bimbo si manifesta il rifiuto di Cristo che si è fatto uomo, si palesa il rifiuto di Dio che è venuto ad abitare in mezzo a noi. L’uomo rinnega la carne della propria carne, ma non osa dirselo, non osa riconoscerlo! Un tempo, almeno, gli antichi consideravano come madre degenere quella Medea che aveva ucciso i due figli e che con l’omicidio si suicidava, rifiutava la sua stessa vita. Oggi l’uomo non riconosce più il male che compie contro di sé con il rifiuto del figlio. Per questo, a ragione, Madre Teresa vedeva nell’aborto, nel non riconoscimento del senso della nascita, il rischio più grande per la distruzione del mondo.